Digitized by the Internet Archive in 2010 with funding from University of Toronto http://www.archive.org/details/leguerreleinsurr01mone E. T. MONETA Le Guerre, e nsurrez on 1 1 COMP 1 e a Pace nel secolo declmonono AZIONI 1 ENDIO STORICO E CONSIDER/ VOLUME PRIMO fc 7a^ MILANO 1904 j ! l La Vita Internazionale Rassegna quindicinale illustrata DIRETTORE: E. T. MONETA $) Ha pubblicato scritti originali di: L. TOLSTOJ — G. NOVICOW — C. RICHET E DE AMICIS — C LOMBROSO - G, SERGI A. LORIA - G FERRERÒ — M. RAPISARDI Y. GUYOT — G. ASCOLI — A. NICEFORO E. VIDARI — E. MORSELLI - S. SIGHELE MARIO PILO, ecc. ecc. Si pubblica in Milano il 15 e il 20 di ogni mese * Trovasi in vendita p7-esso i principali Librai cV Italia ■V- t^lRE3IOME EP A^^'^"STRA5IOnE Portici Settentrionali, 21 - /IILADO E. T. MONETA Le Guerre, le Insurrezioni e la Pace nel Secolo decimonono COMPENDIO STORICO E CONSIDERAZIONI VOLUME PRIMO MILANO HOCIKTÀ TU'OGKAFICA KOniUCE l'OPOLAliK Via San Pietro alJ'Orto. 16 1903 r Estratto dalla Vita Inteknazionai.k PREFAZIONE Di questo compendio storico delle guerre, delle insurrezioni e degli sforzi fatti per la pace nel secolo decintonono, l'autore non dissimula i difetti, sovra- iutto le sproporzioni fra alcune parti. Doveva essere un indice di pochissime pagine, quasi un capitolo del sommario delle invenzioni , delle scoperte e dei progressi nelle scienze, nelle arti e nella politica nell'idtiyno secolo^ die fu pubblicato nella Vita Internazionale, e finì invece per estendersi oltre un volume. Non vi si fa parola di alcune guerre lontane e delle quasi periodiche insurrezioni dell'America me- ridionale, mentre per quelle che ci toccano più davvi- cino, il compendio si muta talvolta in un'ampia nar- razione. In alcune pagine la guerra è presentata come cosa orribile da ripudiare a qualunque costo, in altre si additano le vie che menano alla vittoria. Dautore a sua difesa dichiara che questo com- pendio non fu scritto tutto di seguito, jn momenti tranquilli dopo la necessaria preparazione, bensì man mano che veniva pubblicato nella ^'ita Internazionale; quasi intermezzo fra altri lavori e altre cure. Circa le dissonanze, se vi sono, liirà a sua discolpa clic son dovute a due sentimenti diversi, ma non con- trari, che han sempre guidato l'autore : l'odio prò ■ fondo del culto della guerra e dei suoi paladini, e l'amore non meno projondo della patria e dell'indi- pendenza di tutti i popoli. Perchè le maggiori conquiste del passato si otten- nero colle armi, e le nazioni ora in possesso della propria mdipcndcnza sono sorte o risorte dalla guerra, si crede ancora da gente colta, e si insegna dalle cattedre, che guerre ci saranno sempre. Nulla meglio della storia delle guerre e delle in- surrezioni dell'ultimo secolo dimostra la falsità di t/uesta dottrina. Se perciò, invece d'un arido compendio, l'autore s'è indugiato su alcuni avvenimenti, fino a farne una non breve narrazione, i lettori vorranno assol- verlo, quando considereranno che è questo il primo saggio storico, nel quale il racconto delle guerre sia accompagnato dalla narrazione degli sforzi fatti dagli uomini migliori, il cui numero va sempre au- mentando nei paesi civili, per distruggerle nella loro radice, dimostrando di quanto sangue e di quante lagrime sono bagnati gli allori, che ne nascondono gli orrori e le miserie. Parlando delle guerre del pruìio impero, dalle quali il compendio incomincia, non poteva l'autore dimenticare non solamente il culto che Napoleone ebbe per lungo tempo in una gran parte del popolo francese; ma sovratutto il fiorire in Francia, da una ventina d'anni in qua, d'una schiera di scrittori aiwentururi e di eruditi, tutti smaniosi, a scopo di politica imperialista o militarista, di evocare del- l' li uom futale » ogni pili piccolo ricordo atto a rmverdire la tanto funesta leggenda napoleonica. Era perciò della massima importanza ricordare tutto il male che l'ambizione immensa di Napoleone aveva recato alla Francia e all' Europa, e com'egli mede- simo, sullo scoglio di S. Elena, parlando delle cause della sua caduta, dovette rendere omaggio a quei principi di libertà, di pace e di unione dei popoli, cli'egli aveva con tanto sangue e tante rovine con- trariato. E pace e libertà chiesero i popoli ai loro reggitori, dopo avere coi proprii sforzi atterrato il titano, innanzi al quale imperatori e re s'erano prima umil- mente prostrati. E la pace e l'unione d'Europa sa- rebbero state allora stabilite a vantaggio ai tutti i popoli, e a gloria imperitura dei principi d'Europa, se questi, animati da spirito di giustizia e di uma- nità, l'avessero voluto. Invece, dopo essersi giovato dei sacrifici e del sangue dei loro popoli nelle guerre contro Napoleone, li privarono d'ogni loro diritto, dividendosi fra essi te terre d'Europa, come tata compagnia di pirati si spartirebbe il bottino di una nave presa d'assalto. Le congiure, le agitazioni e le insurrezioni, che si succedettero a brevi intervalli dal i8ij al 1S48, fu- rono le p'oteste colle quali i popoli risposero all'as- setto ingiusto e contro natura che i re e gli impe- ratori della Santa Alleanza avevano dato all'Europa. Arrivato alle insurrezioni e alle guerre italicJie degli anni 184S e 184^, il militante della pace ha ceduto sovente la penna al patrioita, che partecipò agli entusiasmi del periodo della preparazione e alle lotte ardimentose delle Cinque Giornate, e amico in- timo di molti combattenti di Roma e di Venezia, serba in cuore di quegli anni i piìi vivi ricordi, sente ancora il fremito che tutti invadeva correndo alle battaglie, ricorda le sconfìtte, che non prostrarono ma rinvigorirono il proposilo di prepararsi a nuova pììi forte riscossa. Ma narrando del coraggio e dell'intrepidezza dei combattenti, di cui parlano per altro tutti i libri di nostra storia contemporanea, non poteva liiincnti- care le molte leggende che intorno a quei inoli fu- rono creati' dall' amor proprio nazionale , e tro- vano ardito tuttora anche fra gente colta; non poteva neppure dimenticare le cause principali degli avve- nuti disastri, sulle quali in quei libri o si sorvola, o se ne parla in un senso del tutto contrario alla verità. Ecco perchè l'autore ha dovuto diffondersi al- quanto sulle insurrezioni e sulle guerre italiche del 1848 e del 184^ — come dovrà soffermarsi sulle guerre del i8jg, del 1860 e del 1866, come quelle che furono seguite dai plebisciti, che costituirono giuridicamente la nuova Italia politica. L'autore deve qui una parola di ringraziamento al prof.facopo Dal Fabbro {Demetrio), dei cui giu- dizi sulla condotta delle guerre per l'indipendenza d'Italia si ì' molte volte giovato. Ritornando a coloro che forse si meraviglieranno, che mentre in molte pagine combattiamo il culto della guerra, in altre si esalta il coraggio dei com- battenti per la libertà e per la patria, e si indicano i fattori della vittoria, l'autore risponde che la pace, al cui trionfo ha dedicato tutte le sue forze, deve essere la pace dei liberi e dei forti. Questa pace, tocclierebbe ai governi veramente ci- vili di stabilire e assicurare per sempre, e a questo scopo son rivolti gli sforzi degli amici e delle So- cietà della pace d'ogni parte del mondo. Ma poiché ne siamo tuttora lontani e e' è ancora nel mondo, sovratutto fra gli uomini di Stato, tanta gente die vede nelle guerre il miglior modo di ac- crescere potenza al proprio paese, è di suprema necessità che ogni popolo sia pronto a rintuzzare qualsiasi offesa gli fosse fatta da uno o piti Stati, invadenti e prepotenti. Coltivare perdi) il coraggio, la costanza, lo spi- rito (il sacrificio, la disciplina, tutte le virtù die danno ai popoli la coscienza della propria forza e il fermo proposito di far valere il proprio diritto, sarà ancJie nel presente secolo fra i piìt validi fat- tori di quella stabile pace, la quale preparerà la via alla federazione universale. E questa la speranza che ha accompagnato l'autore nello scrivere questo compendio delle guerre, delle insurrezioni e degli sforzi che furono fatti nel se- colo decimonono per arrivare al pieno conseguimento d'una vera pace basata sulla giustizia. Se — convinti che l'unione di tutte le patrie nella libera e affratellata umanità non è un sogno di poeti, ma meta positiva segnata dalla evoluzione civile; se persuasi che alla realizzazione di un grande ideale occorre l'opera costante di pochi uomini di forte a- nimo, i quali ne traccino la via alle masse — otto o dieci fra voi, amici lettori, vorrete essere fra quei pochi, questo compendio non sarà stato scritto in- vano, e non invano saranno stati evocati i ricordi delle fatiche, degli sforzi, dei sacrifici e dei martirii che sono costati, nel secolo scorso, ai paesi liberi di d'Europa e d'America le loro conquiste politiche e civili, all'Italia l'indipendenza e l'unità nazionale. Epoca Napoleonica Venuta per rinnovare il mondo, fra i tanti mali che la rivoluzione francese voleva distrug- gere - tirannide, superstizione, privilegi eredi- tari e di classe - la guerra teneva uno dei primi posti. In tutto quel periodo che fu la preparazione intellettuale della rivoluzione, dall'abate Saint- Pierre a Diderot, da Voltaire a Rousseau, i grandi pensatori, i poeti e gli economisti, nel- l'Enciclopedia e col teatro, col romanzo e colla satira, avevano gli uni stimmatizzato, gli altri anatomizzato la guerra, condannandola come la massima piaga e ad un tempo l'onta maggiore dell'Umanità, e causa principale del dispotismo dei re. Perciò la rivoluzione francese, erede ed ese- cutrice testamentaria dello spirito innovatore del secolo decimottavo, " chiamava, „ secondo la bella immagine di Lamartine, " 1 gentili come i giudei al godimento della luce e della fratel- lanza. „ Non uno dei suoi apostoli che non proclamasse la pace fra i popoli. " Mirabeau, Lafayette, Robespierre medesimo cancellarono la guerra dal simbolo che presentarono alla nazione. „ Disgraziatamente la rivoluzione, dopo breve cammino, dimenticò le ragioni della sua origine e le splendide promesse clie aveva fatte a sé medesima e al mondo. E come all'interno, resa cieca di furore per gli ostacoli che incontrava, fece della ghigliot- tina stroraento delle sue feroci giustizie, e fini per sollevare contro di sé 1* animo di quasi tutta la Francia, che per disfarsene le preferi il dispotismo d'un soldato, così in Europa, per far guerra alle monarchie, riapri l'èra delle grandi guerre, che la mitezza dei costumi e gli accresciuti rapporti fra le nazioni pareva aves- sero già cliiusa. 11 torto dei fanatici che diedero alla rivolu- zione francese un carattere violento, fu di avere creduto che le loro idee di emancipazione in- tellettuale e morale dell'uomo, comprese e ac- cettate fino allora solamente da un piccolo gruppo di spregiudicati, potessero, a lume di ragionamenti e di decreti, trionfare su idee e credenze e pregiudizi, che hanno radici molte volte secolari nella coscienza e nell'animo dei popoli; e di avere immaginato di poter fondare il nuovo ordine di cose, offendendo una quan- tità innumerevole di interessi, e servendosi di quei mezzi di violenza, di cui si servivano le vecchie tirannidi per sottomettere i popoli ri- belli. Dimenticarono che la società non è una co- struzione che si possa disfare e rifare a piaci- mento di chi ne assume il governo. La guerra é fin qui esistita, perchè i più forti han sempre creduto di poter domare tutte le resistenze che altre forze sociali opponevano al dominio assoluto, materiale e morale, da quei forti vagheggiato. Lasciar vivere tutti gli enti, che non nuociono altrui, tutte le forze che hanno in sé elementi di durata, e che il tempo modifica a vantag- gio della civiltà, è dunque condizione indispen- sabile d'una vera e stabile pace fra uomini e popoli. In altre parole la tolleranza di tutte le opinioni, il rispetto della vita e l'equità nelle leggi che riguardano i diritti individuali, sono le condizioni proprie della pace sociale, come l'equità nei rapporti fra i diversi Slati, qualun- que sia la loro forma, è il vero fondamento della pace internazionale. Perciò la rivoluzione francese, in luogo della libertà che aveva proclamato, diede lo spetta- colo d'una feroce tirannide; invece del trionfo della ragione, lasciò il cattolicisrao più forte che non fosse al di lei avvenimento, e invece della pace promessa ai popoli, ravvivò gli odii di nazionalità e di razza. Quando la rivoluzione ebbe, come Saturno, divorato i suoi figli migliori, e i vincitori di Robespierre, divisi fra loro da piccole ambi- zioni, non ebbero più fiducia in sé stessi, e il governo dovette sembrare facile preda o pre- mio di chiunque si fosse presentato prometti- tore di quiete e di un regime tollerabile, Na- poleone venne, e, aiutato da un gruppo di av- venturieri, s'impadroni dello Stato. Mente pronta e vasta, animo superiore a tutti i pregiudizi come alle più nobili aspirazioni del suo tempo, di buon'ora egli aveva gettato lo sguardo nelle misteriose latebre del cuore umano e ne aveva scoperto le immense debo- lezze; della storia aveva letto le pagine più truci, quelle scritte colla spada sterminatrice, che narrano il trionfo della forza e le popola zioni sempre genuflesse davanti al guerriero fortunato; nella rivoluzione aveva veduto i pig- mei apparire giganti ; soldato aveva esperimen- tato clie l'insensibilità d'animo e l'audacia sono le prime doli per vincere le grandi battaglie. Dei principii della rivoluzione accettò quella parte che riguardava il diritto privato, non le libertà pubbliche, incorapalibili coll'autorità su- prema a cui agognava. Opera e gloria della rivoluzione era stato lo spirito di umanesimo, che aveva trasfuso nei suoi principali atti e che aveva cercato di dif- fondere nel mondo. Le sue guerre stesse le aveva fatte per ab- battere tutte le tirannidi, e per inaugurare nel mondo l'era della giustizia, della pace e della fratellanza dei popoli. Ed ecco Napoleone, che rigetta l'umanesimo fra le utopie degli idealisti, salvo a far credere ch'era l'alta sua meta, quando a Sant' Elena cercherà di difendere la sua memoria dal giu- dizio severo della storia. Volendo fare della Francia lo stromento do- cile della sua ambizione, e sentendo di poter colla guerra agognare alle maggiori conquiste, suo pensiero costante sarà di accarezzare e tener vivi gli istinti bellicosi del popolo fran- cese, di inebbriarlo coi fantasmi della gloria guerresca e saturarlo di boria nazionale. Adu- landolo in ogni occasione e in ogni tempo, per esserne a sua volta adulato e incensato. Napo- leone comprese di buon'ora di poter trarre dalla Francia tutto il getto d'uomini e di de- naro che a lui occorreva per mandare ad effetto i suoi disegni, ogni giorno più vasti, di dominio militare e politico. Al sentirsi ognora chiamare la prima e più valorosa nazione, la F'rancia del popolo doveva finire per credersi tale, e per giudicare legit- time tutte le conquiste che il novello Cesare faceva, dimenticando che ogni conquista voleva dire un'offesa ai principii della sua rivoluzione, e doveva crearle, nel popolo conquistato, un nuovo nemico. Era stato da pochi mesi eletto alla dignità consolare, quando Napoleone - che aveva, come generale della repubblica, conquistato la sua fama di gran capitano nelle guerre d'Italia del 1796 e 1797 - intraprese la nuova guerra d'Italia scendendo dal gran San Bernardo. Questa era, se non altro, più che conquista, guerra di li- berazione. Vince a Marengo (dove gli austriaci hanno 8000 fra morti e feriti e i francesi 6000), men- tre il generale Moreau vince gli austriaci a Hochstaedt e a Hohenlinden. Vista minacciata anche la capitale, l'Austria firma a Luneville (9 febb. 1801) il trattato di pace, col quale riconferma la rinuncia ai pos- sedimenti in Italia, già stipulata nel trattato di Campoformio, e dalla parte di Germania dà il Reno come limite alla Francia. Un anno dopo, la pace è fatta coll'Inghilterra, la quale, governando Pitt, aveva costretto i francesi a evacuare l'Egitto, e s'era impadro- nita di Malta. A Pitt era succeduto Fox, il Glad- stone di quei tempi, che vedeva nell'unione dell' Inghilterra e della Francia una garanzia di pace e una grande forza per la causa della civiltà. L'Inghilterra col trattato di Amiens (21 marzo 1802) restituiva alla Francia le sue colonie, ren- deva agli olandesi la Colonia del Capo, e si ob- bligava a restituire Malta ai Cavalieri di San Giovanni. Quella pace fu festeggiata con grande esul- tanza nei due paesi, ciò che prova che anche allora con governanti onesti una solida e giusta pace non sarebbe stata difficile a stabilirsi. Ma la pace d'Amiens non durò più di un anno, perchè, ritornato Pitt al potere nel 1803, non volle saperne della clausola del trattato relativa a Malta. Pretesto a questo rifiuto erano le nuove an- nessioni, dell'isola d'Elba, del Piemonte e del Ducato di Parma alla Francia, contrarie allo spirito delle avvenute stipulazioni; erano inol- tre le parole di minaccia che il primo Console aveva adoperato, in un suo discorso al Corpo legislativo, alludendo all'Inghilterra, e l'inten- zione in quell'occasione da lui espressa di po- tare l'esercito a 500,000 uomini. L'Inghilterra rispose a queste minacele richia- mando il suo ambasciatore, portando il suo esercito di terra a 180,000 uomini, aumentando la flotta, e mandando due fregate a catturare i vascelli mercantili nella rada di Aubierne. Bonaparte, che non si aspettava di meglio, rispose a quest'atto di prepotenza dichiarando prigionieri di guerra tutti gli inglesi che si tro- vavano allora in Francia. Infiammato dall'idea di distruggere la potenza britannica nel suo centro medesimo, Napo- leone si dà a tutt'uomo a preparare una di- scesa armata in Inghilterra, facendo costruire una llottiglia di 2000 barche cannoniere, capaci di portare 150,000 soldati, 15.000 marinai. 10,000 cavalli e 400 cannoni. E, per non perder tempo, s'impadronisce dell'Annover, che apparteneva al re d'In«hilterra. Poi, portando al colmo il suo disprezzo del diritto ^elle genti, compie il più odioso degli assassinii politici che la storia rammenta, fa- cendo rapire da un suo distaccamento di dra- goni il Duca di Enghien, ultimo rampollo dei principi di Condé, che viveva tranquillo nel territorio di Baden, e dopo un simulacro di pro- cesso, a cui mancano tutte le forme legali, lo fa fucilare nel fossato del castello di Vincennes. È con questi sinistri auspicii, che, offertagli da un Senato servile, cinge la corona imperiale, facendosi consacrare nella cattedrale di Nostra Signora da Pio VII, ch'egli ricompenserà poi - perchè non ligio ai suoi disegni di universale usurpazione, - spogliandolo de' suoi Stati, fa- cendolo arrestare di notte nel palazzo del Qui- rinale, e tenendolo lungo tempo prigioniero nella fortezza di Savona. Pochi mesi dopo cingeva nel Duomo di Mi- lano la corona di ferro dei re Longobardi, offertagli da un Senato non meno servile di quello francese. Imperatore dei francesi e re d'Italia, Napo- leone s'immaginò di essere il Carlo Magno dei tempi nuovi, bene accetto ai popoli come rap- presentante della rivoluzione, e ai principi quale campione dei principii d',ordine contro la ri- voluzione. Siccome il progresso è sempre una risultante d'un compromesso fra ciò che è e ciò che do- vrebbe essere, fra il diritto nuovo e il vecchio, è accaduto più d'una volta, all'indomani d'una rivoluzione, vedere il miglior retaggio di questa salvato da chi poteva riguardarsi come nova- tore in faccia alle idee e agli interessi del passato, e come campione della libertà e del- 8 Ma perchè questa doppia parie conduca al trionfo, occorre che chi la rappresenta .sia to- talmente spoglio da ambizione e preoccupazioni personali, animato solamente dalla passione del pubblico bene. Questo non era pur troppo il caso di Na- poleone. Volendo erigersi supremo signore di tutto e di tutti, ponendo sotto i piedi la libertà dei cittadini e le nazionalità, l'autorità e la dignità delle vecchie dinastie e il diritto delle genti, fini per suscitare contro la sua odiata tirannide la sollevazione generale dei popoli e dei re. Considerandosi padrone assoluto dei paesi che i suoi eserciti conquisteranno, farà di molti quasi altrettanti feudi da distribuire a con- giunti e compagni d'arme. Era il medioevo ri- suscitato nella sua parte più antipatica ed ai popoli più molesta. Iniziò questo nuovo feudalismo nominando il figlioccio Eugenio Beauharnais viceré d'Italia, dando alla sorella Elisa il ducato di Lucca e Piombino, regalò più tardi il regno di Napoli al fratello Giuseppe, poi a Murat, quando pre- tenderà di fare di Giuseppe il re di Spagna; darà il regno d'Olanda al fratello Luigi, e quello di Vestfalia a Gerolamo. La Liguria, di cui il trattato di Luneville aveva riconosciuto la indipendenza, fu con un tratto di penna annessa all'impero francese. Per metter un freno a tante usurpazioni si formò nel 1805 una nuova coalizione fra Russia, Austria e Inghilterra. La nuova guerra tornò propizia a Napoleone. Mentre Massena batte 1' arciduca Carlo a Cal- diero, Napoleone costringe il generale Mack a capitolare, cedendo la fortezza di Ulma ; s'im- padronisce di Vienna ; poi muove contro au- striaci e russi riuniti, comandati dai due im- peratori Francesco e Alessandro, e li sbaraglia coupletamente ad Austerlitz, dove - secondo il frasario degli istoriografi militaristi - 20,000 cadaveri attestano la gloria del vincitore e ronore dei vinti ! La fortuna che Napoleone aveva avuto tanto propizia in terra, gli fu invece contrarissima in mare. Le flotte riunite di Francia e Spagna vennero completamente distrutte nelle acque di Trafalgar dalla flotta inglese di Nelson, il quale però, mentre ritto sul ponte della nave ammiraglia comandava la mischia, vi lasciò la vita. La causa della pace parve per un momento potesse prevalere sugli istinti soldateschi di Napoleone, quando, essendo Fox succeduto a Pilt, pensò di avviare con lui e con la Russia trattative di pace. Disgraziatamente la morte di Fox, avvenuta durante quelle trattative, portò di nuovo al governo d'Inghilterra il partito contrario alla pace. Rottele trattative coll'Inghilterra, furono rotte parimenti colla Russia, alla quale si unì allora anche la Prussia, irritata contro Napoleone, perchè, dopo essersi egli obbligato a cederle l'Annover, in compenso delle provincie di Fran- conia, del Reno e dei possedimenti svizzeri, dalla Russia ceduti alla Francia, ne aveva pro- messo la restituzione all'Inghilterra nelle trat- tative avviate con Fox. Alle battaglie di Jena e di Auerstaed i prus- siani sono terribilmente battuti, lasciando sul terreno più di 20,000 fra morti e feriti, e nelle mani dei francesi 18,000 prigionieri. 10 Da quelle sconfitte però e dal trattato di pace che vi seguì, il quale obbligava la Prus- sia a smantellare le sue fortezze ed a tenere sotto le armi un numero limitatissimo di sol- dati, data il risorgimento politico della Prus- sia, percliè davanti allo spettacolo della patria vinta e umiliata si risvegliò e prese vigore in tutta la Germania il sentimento nazionale, e perchè gli uomini di Stato prussiani seppero pei primi mettere in atto il sistema della na- zione armata, facendo dell'esercito stanziale in tempo di pace, soltanto una scuola di educa- zione militare, avendo essi compreso che la viva forza d'uno Stato è nell'appoggio che il governo può trovare nel popolo. Dopo Jena, Napoleone mosse contro i russi, e li battè a Ej^lau e a Friedland; soltanto in quest'ultima battaglia vi furono 40,000 fra morti e feriti, circa tre quarti dei quali erano russi. «Spettacolo questo da inspirare ai principi l'amore della pace e l'orrore della guerra ! » Cosi scrisse Napoleone nel suo Bollettino, mentre in lettera mandata pochi di dopo al fratello Giuseppe in Napoli, diceva che non si era mai sentito cosi bene come in quei giorni, tanto che ingrassava. A Tilsitt segna la pace con la Russia e con la Prussia, obbligandole a entrare nel blocco continentale, che aveva per iscopo di rovinare il commercio inglese, mentre i più danneggiati furono i popoli del continente, che dovettero pagare tre o quattro volte di più le derrate, che non potevano più comperare direttamente dall'Inghilterra. Ma Jo spirito invadente di Napoleone non poteva trovar pace, e approfittando delle di- scordie sorte fra Carlo IV e Ferdinando VII, 11 padre e figlio, di Spagna, dopo averli aizzati l'un contro l'altro, li accarezza, li illude, li chiama a Bajona, dove egli si trova, fingendo di voler essere fra essi il conciliatore, e quando sono a lui venuti, li fa entrambi prigionieri, e dà la corona di Spagna al fratello Giuseppe. L'atto iniquo di Bajona, che ricordava i tra- dimenti di Cesare Borgia, segnò il principio della rovina di Napoleone. Una nazione cavalleresca, indomita, fiera dei suoi diritti, che aveva fatto contro la domina- zione dei mori una guerra di più secoli, non poteva lasciare impunito l'oltraggio che le era fatto. Tutta la Spagna, ferita nel suo orgoglio, si sollevò, tutti i parliti non ebbero più che un pensiero: la cacciata dell'invasore. Ben qnattro anni durò la guerra di Spagna, caratterizzata da una parte e dall'altra da atti di spaventevole ferocia. Anche vincendo, i fran- cesi non rimanevano padroni che delle città nelle quali accampavano. Per dar mano agli insorti spagnuoli, non tar- darono gli inglesi a fare anche del Portogallo un campo di operazione contro i francesi, e le due guerre assorbendo le migliori risorse d'uomini e di denaro della Francia, furono oc- casione d'una nuova riscossa dell'Austria, che sperò con rinnovate forze avere la rivincita delle passate sconfitte ; e con queste speranze invase con tre eserciti la Dalmazia, l'Italia e la Baviera. Ma anche questa volta gli austriaci ebbero la peggio. Battuti da Napoleone e dai suoi luogo- tenenti ad Abensberg, a Eckmùhl, perduta Ra- tisbona e Vienna; disfatti completamente a Wagram - dove dalla sola parte iaustraca vi 12 furono 31,000 fra uccisi e feriti - la guerra ter- minò col trattato di Vienna, col quale l'Austria cedeva di nuovo l'Italia alla Francia. L'impero francese si estendeva allora dalle boccile dell'Hlba fino alla Turchia. Su quasi tutti i troni d'Europa regnavano vassalli di Napoleone, e di buona o mala grazia tutti i prin- cipi di Germania erano entrati in alleanza colla Francia. Questa unione di tanti Stati intorno ad un unico centro, quando Napoleone prigioniero a Sant' Elena tentò difendersi in faccia alla storia dell' abuso eh' egli aveva fatto della forza, la chiamò necessario avviamento alla federazione di tutti gli Stati d'Europa. Ma egli ciò affermando ignorava, o fingeva di ignorare che le federazioni, per essere durevoli, devono nascere dall'elezione spontanea dei singoli Stati, non dalla forza. 11 difetto del sistema napoleo- nico fu che tutte le sue parti erano tenute in- sieme dalla sola forza; scossa questa, tutto l'edi- ficio doveva crollare. Lo si vide all' indomani del disastro di Russia. Le tragiche peripezie di questa campagna son troppo note, per doverle qui ricordare. Contro il parere dei ministri e dei suoi mi- gliori generali dichiara guerra alla Russia, e alla testa di 500,000 uomini, la maggior parte dei quali apparteneva a Stati alleati, vale a dire vassalli, passa il Niemen il 24 giugno 1812, ed occupa senza combattimento tutta la Li- tuania. Dopo Wilna i viveri cominciano a scemare, e l'esercito a diminuire di numero per fame, per malattie e diserzioni. Nella battaglia della Moskova i russi perdono 50,000 fra morti e feriti, e i francesi 20,000. Ma il grande esercito era già ridotto d'una buona 13 mela quando enirò in Mosca; per colmo di sciagura pochi di dopo tutta la città venne data alle fiamme. Attendendo proposte di pace, che mai non arrivano, Napoleone perde un tempo prezioso, e si decide alla ritirata verso la fine d'ottobre, quando, avvicinandosi l'inverno, la permanenza in Russia, colla penuria di viveri, diveniva pe- ricolosissima. Era tardi. La ritirata fu un continuo flagello. Imperversando il freddo e la neve, mancando i viveri, ogni tappa, ogni passo erano segnati da scene di dolori e di spasimi orrendi ; mo- renti di freddo e di fame, i soldati abbandona- vano armi e munizioni; molti impazzirono. Dopo il passaggio della Beresina, Napoleone abbandonava precipitosamente il suo esercito, (come aveva fatto in Egitto) dando nel suo bol- lettino alla Francia la bella notizia, che, se- condo lui, doveva valere come l'annuncio di prossime sicure vittorie, " mai la salute dell'im- peratore era stata cosi eccellente! « Dei 500,000 ch'erano entrati in Russia, sol- tanto 50,000 - una decima parte - poterono ri- tornare ai loro focolari. Erano i perduti qualche cosa di più di quei cento mila uccisi in battaglia, che Napoleone, in un colloquio avuto qualche anno prima con Metternich, aveva detto che nei suoi calcoli con- tavano zero ! Allora avvenne ciò che tutti gli uomini di senno, avevano già preveduto: gli alleati per forza ruppero, chi prima, chi poi, la catena che li teneva avvinti al carro del trionfatore, e for- marono contro Napoleone una coalizione, che raccoglieva quasi tutti gli Stati d'Europa. Napoleone fidente nel suo genio guerresco 14 credette di poter vincere tanti nemici; e vinse gli alleati a Lutzen, a Bautzen e a Wurschen; e dopo un breve armistizio, li vinse di nuovo a Dresda. Ma invano, perché a Lipsia, dove egli aveva concentrato il maggior numero delle sue forze, subì, per la prima volta in vent'anni di guerre, una irreparabile disfatta. Allora la guerra si portò in Francia. Ma non era più la Francia del 1793, quando le legioni im- provvisate dei volontari, animati dalla fiamma della libertà, respinsero gli eserciti invasori. La fede nel genio del gran guerriero era perduta ; la sua ambizione, delle cui tante vittime non v'era famiglia che non portasse il lutto, aveva tutti stancato. Per farsi un' idea delle perdite d'uomini che la Francia aveva fatte, basta ricordare le leve straordinarie del solo anno 1813. Eccone le elo- quenti cifre: 1-13 gennaio 350,000 uomini 1-5 aprile 180,000 23-24 agosto 30,000 7 ottobre 180.000 13-15 dicembre 300,000 Totale 1,040,000 uomini Non valsero perciò i prodìgi di genio da Na- poleone compiuti nella campagna di Francia del 1814, che fu detta la più mirabile di tutte le sue guerre, a scongiurare il fato avverso che gli sovrastavi). Mentre egli |)ensava di tagliare la via della ritirata agli eserciti alleati, questi portavansi sotto Parigi, che affretlavasi a capitolare, e dove il Senato, tutto composto di creature di Napoleone, per far dimenticare il proprio lungo 15 servilismo, chiamava Napoleone tiranno, di- chiaravalo decaduto dal trono, e richiamava i borbonì a rioccuparlo. Luigi decimottavo aveva cosi poco imparato nei lunghi anni d'esiglio, e conosceva così male la nuova Francia, che avrebbe voluto cancel- lare fin la memoria di tutto quanto di buono e di grande s'era fatto dalla rivoluzione in poi. Egli spinse l'ingenuità e la ridicolaggine fino a far stampare negli atti pubblici come il 19.° anno del suo regno, quello che in realtà non era che il primo. Egli ebbe cosi il poco invidiabile merito di rendersi in breve tempo inviso alla maggior parte di quei medesimi che avevano accolto con giubilo il suo ritorno. Cosi si spiega come Napoleone, che aveva dovuto travestirsi per sfuggire all'esasperazione del popolo, quando attraversò la Francia per imbarcarsi per l'isola d'Elba, sperò un anno dopo nel ritorno della sua fortuna, comparendo d'improTviso in Francia, dove la massa della nazione lo accolse con entusiasmo come nei giorni della sua maggior potenza. Ma quel ritorno gli fu causa di maggior danno. A Waterloo il suo genio non aveva più il vigore e la fulminea decisione di un anno prima, e la sua rotta fu cosi completa, ch'egli dovette chie- dere ospitalità alla sua mortale nemica, l'Inghil- terra, che trattandolo come un prigioniero di guerra pericoloso, lo mandò a finire i suoi giorni nell'insalubre Sant' Elena. Dopo avere dettate le sue memorie, colle quali cercò d'ingannare i posteri, come aveva ingan- nato i suoi contemporanei, mori compianto e adorato come un Dio da quei soldati fran- cesi, che dopo avere, guidati da lui, coperto 16 l'Europa di strafai e di rovine, avevano ragione di credere che qualche raggio della sua gloria sanguigna si riverberasse anche su di essi. Il bilancio compendiato di ciò che costò r epopea napoleonica alla Francia e all'Europa è dato (la queste poche cifre: Costo delle guerre e delle relative indennità L. 16,500,000,000 Perdite d' uomini : francesi 700,000 d'altre nazioni 2,000,000 Dalle invasioni barbariche in poi non s'era mai veduto in Europa in cosi breve periodo di tempo tanta crudele distruzione di uomini e di ricchezze. Eppure si son veduti, anche in questi ultimi anni, uomini di dottrina e letterati accademici rivolgere tutto il loro ingegno a rialzare il culto delle glorie guerresche, di quelle napo- leoniche in ispecie ! A quando la fine di cosi sistematico oltrag- gio alla verità storica e alla morale? 17 Inìzi dì propaganda contro la guerra Quando tuona il cannone e la guerra divam- pa, la ragione e il diritto sono costretti al si- lenzio. Così nel ventennio delle guerre che seguirono alla rivoluzione francese soltanto agli scrittori invasati di spirito militarista e agli incensa- tori del novello Giove era data libertà di pa- rola e di stampa. Tuttavia anche in quel pe- riodo di compressione non mancarono coloro che ribellandosi allo spettacolo della violenza trionfante, e studiandone le cause, videro la possibilità e le ragioni delle future rivendica- zioni umane. Emanuele Kant. Il primo di questi veggenti fu Emanuele Kant, il gran filosofo di Kònisberga. Il suo Saggio filosofico sulla pace perpetua fu pubblicato all'indomani della pace di Basilea (1795), ma fu probabilmente concepito dal grande pensatore nei giorni in cui la Rivoluzione fran- cese destava anche fuori di Francia le più belle speranze; quando le monarchie assolute, in lotta contro la nazione francese, dovevano essere considerate come principale ostacolo al- l'affratellaraento dei popoli, da quella rivolu- zione preconizzato. Ciò spiega r idea fondamentale del Saggio di Emanuele Kant. Il moralista filosofo diede al suo progetto la forma d'un protocollo, e la soluzione ch'egli. 2 18 propone è una fe(ìerazione di popoli, che avrebbe una Camera legislativa, un Tribunale e un Con- siglio esecutivo per le cose d'interesse gene- rale, mentre ogni Stato sarebbe sovrano in casa propria. Federazione di popoli ordinati in repubblica e abolizione degli eserciti permanenti, sono i due capisaldi che, secondo il progetto di Ema- nuele Kant, assicureranno la pace del mondo ; e sono le due idee che dopo i moti popolari del 1848, a mezzo secolo di distanza, trovarono 1 più caldi seguaci fra gli amici della pace. Ma quando il Saggio sulla pace perpetua fu pubblicato, non ebbe che un interesse di curio- sità in una ristretta cerchia di lettori, perchè da un lato i difensori dei vecchi privilegi e dall'altro i seguaci delle idee nuove non vede- vano che nella fortuna delle armi il trionfo della propria causa. Né posteriormente per lunga pezza quel progetto fu più ricordato. Era riservato ai nostri tempi l'onore e il dovere di rimettere in debita luce le due grandiose idee del filosofo tedesco, e ciò avvenne specialmente per opera di Carlo Lemonnier, il fondatore e presidente fin che visse della Leg^a della Pace e della Libertà, che di quelle due idee fece la base principale della sua propaganda. Guglielmo Channing. Le guerre continue di Napoleone, che copri- vano di stragi i migliori campi d'Europa, e la passione delle armi da lui destata nel popolo francese, coli' esaltarne di continuo il valor guerriero, se impietrivano gli animi delle po- polazioni europee, che di quelle guerre erano vittime, dovevano destare doloroso stupore e 19 indignazione ad un tempo nel giovane popolo americano, che aveva conquistato colle armi la indipendenza, ma che, costretto a combattere, aveva veduto quanto vi è di atroce e di crudele in tutte le guerre, comprese quelle di legittima difesa. E là questo sentimento di orrore e di avver- sione alla guerra, specialmente al culto delle glorie guerresche, trovò un eloquente interprete in Guglielmo Channing (nato nel 1780, morto nel 1842), uno degli uomini più puri, più no- bili, più infervorati di amore dell'umanità, che il mondo moderno abbia avuto. Ministro d'una confessione protestante, egli considerò l'intolleranza religiosa come gravis- sima offesa allo spirito del vero cristianesimo, che è amore e carità. Precorrendo i tempi, non solo avrebbe voluto l'alleanza di tutte le religioni nel nome di Cri- sto, ma, a promuovere il bene morale, faceva appello alla cooperazione anche di coloro che, non ascritti ad alcuna religione, sentivano amore per la giustizia e per la verità. Guglielmo Channing fu fra i primi nel secolo scorso a vedere nella guerra il centro di tutti i mali sociali, la radice del pervertimento in- tellettuale e morale cosi degli individui come delle masse. Non soltanto nel tempio , ma anche nelle riunioni laiche, egli non perdeva occasione di far sentire di quanto sangue e di quali lagrime sono coperti gli allori della guerra. Le sue pit- ture dei morti in battaglia, i suoi argomenti per dimostrare che nessun delitto può uguagliare quello di uomini di Stato i quali a mente fredda, per calcoli d'ambizione, gettano un popolo con- tro l'altro, sono un modello di eloquenza e di 20 logica, non superato dai molti che ai giorni nostri parlarono e scrissero contro la guerra. Leggendo i suoi discorsi si sente ch'egli era non solamente una mente che pensava, devota alla verità, ma sovratutto un uomo di cuore, il quale soffriva fortemente dei mali che gli uo- mini fanno a sé stessi, e avrebbe voluto con- durli a più sana condotta. Meriterebbero quei discorsi essere tradotti anche oggi nelle prin' cipali lingue europee, come il nome di Gu- glielmo Channing meriterebbe di avere un posto luminoso fra i precursori della pace universale; non si comprende perciò come sia stato dimenticato nel gran quadro di Enrico Danger, dove pur campeggiano tante mezze figure. Giulia de Krijdener. È un'altra nobilissima precorritrice dei tempi, che nel momento culminante dell'epopea na- poleonica molto operò per far spezzare in mano ai governi ed ai popoli le armi omicide, e che tuttavia cerchereste invano nel quadro dei campioni della pace del su ricordato pittore Danger e nella massima parte degli scritti in cui si vorrebbe riassumere, sia pure a grandi linee, il movimento in prò della pace nel XIX secolo. Giulia de Wietinghoff, nata a Riga di Li- vonia nel 1764, sposò a 18 anni, per volontà dei genitori non per elezione propria, il diplo- matico russo barone de Krùdener. Dopo una gioventù brillantissima, nella quale si narra spendesse venti mila franchi al mese in abiti e gioielli, e dopo avere scritto romanzi che fecero qualche rumore a quei tempi, ri- 21 masta vedova rinunciò alle soddisfazioni del- l'opulenza e della celebrità letteraria, per farsi banditrice della rigenerazione morale sulla base del cristianesimo primitivo. Vestita d'un cilicio e d'abiti grossolani, come usano anche oggi molte ricche signore d' In- ghilterra e del Nord-America ascritte alla So- cietà dei quacqueri, percorse Germania e Sviz- zera predicando la pratica del cristianesimo nella sua primitiva purezza. Non più odii, né guerre tra i popoli; Cristo re dei re, Dio vi- vente padrone del mondo, solo codice delle nazioni il Vangelo. Queste le idee ch'essa cercava di diffondere nelle povere moltitudini, sempre accompagnata da uno stuolo di seguaci, che dicevano : Chia- miamo nessuno, ma gli eletti di Dio ci seguano. Distribuiva minestre agli indigenti, che que- sti ricevevano in ginocchio come dono del cielo, mentre stimmatizzava con parole di in- spirata eloquenza la tirannia dei grandi e la avarizia dei ricchi. Trovò, come sempre avviene in simili casi, proseliti nelle classi inferiori ; finché, veduti i re alla testa dei loro popoli per abbattere il novello Nerone, sperò di poter realizzare per mezzo di essi il suo mistico ideale, spe- cialmente per opera di Alessandro di Russia, da essa chiamato angelo bianco del mondo, come Napoleone era il nero. Ma nel 1814, dopo la prima caduta di Napo leone, visto che i re coalizzati si mostravano più pagani che cristiani nel dividersi tra loro i popoli, a cui erano stati cosi larghi di pro- messe nella loro lotta contro il soldato conqui- statore, e che i Borboni nulla avevano imparato dal loro esilio, profetò il ritorno di Napoleone 22 dall'isola d'Elba, la sua rientrata trionfale in Parigi e il secondo esilio dei Borboni. Quando di lì a pochi mesi questi avveni- menti si verificarono appuntino, la popolarità della baronessa di Krùdener divenne immensa, Allora l'imperatore di Russia volle vederla. Il convegno ebbe luogo nel maggio 1815 a Heil- bronn, e i rapporti fra lo Czar e la baronessa Kriidener divennero da quel momento fre- quentissimi. Essa lo chiamava l'angelo prede- stinato a compiere in terra i disegni del Si- gnore. Lo segui a Parigi, dove prese stanza vicino a lui, col proposito che nelle nuove di- sposizioni da prendere per il mantenimento della pace europea, non fossero dimenticati gli insegnamenti dell'amor cristiano. E non a torto sì attribuirono all'influenza della baronessa de Krùdener le benevoli disposi- zioni verso la Francia che lo Czar Alessandro riesci a far prevalere negli atti definitivi del Congresso di Vienna, e sovratutto la spiritualità tutta cristiana del manifesto - che fu proba- bilissimamente opera personale dell'imperatore Alessandro - con cui i Sovrani di Russia, d'Austria e di Prussia annunciarono ai popoli di Europa di essersi uniti, per la difesa della pace e della religione, in Santa Alleanza. Chateaubriand, Beniamino Constant E Signora di Stael. Sebbene, come già s'è detto, sotto il governo dispotico di Napoleone gli oppositori alla sua politica non avessero libertà di parola e di stam- pa, giova ricordare che i tre più illustri scrit- tori dì queir epoca. Chateaubriand, Beniamino Constant e la Signora di Stael, mantennero fede ai principii liberali, protestando a proprio ri- schio contro il regime della sciabola. Le loro proteste però, fino al 1814, o non varcarono i confini delle conversazioni private, o ebbero un carattere puramente letterario. Ciò nondimeno dovettero tutti e tre sottrarsi per tempo coli' esilio alle persecuzioni del go- verno napoleonico. Saint-Simon. Con Saint-Simon (1760-1825) il socialismo francese fa la sua comparsa nel mondo, ed è bello vedere come il suo primo pensiero fu di finirla cogli odi di nazionalità e colle cause di guerra. Pronipote di quel Duca di Saint-Simon, le cui Memorie divennero tanto celebri, si faceva svegliare a 17 anni da un domestico che gli rivolgeva queste parole: Alzatevi, Conte, voi avete grandi cose da compiere! Divorato dal pensiero di domare colla scienza le forze avverse della natura, suggerisce, a 19 anni,- al Viceré del Messico il taglio dell' istmo di Panama. A 23 anni combatte per l'indipendenza ame= ricana, ed è fatto da Washington colonnello sul campo di battaglia. Non avendo fede che nella scienza, non pi- glia parte, nel turbine della Rivoluzione fran- cese, per nessuna fazione, ma specula sui beni nazionali, per trarne i fondi necessari a fon- dare una grande scuola scientifica. Per arrivare a questo scopo, intraprende viaggi, chiama alla sua tavola artisti e scien- ziati, finché, operando più da poeta che da filosofo, si vede ad un tratto piombato dalla opulenza nella miseria. 24 Costretto a vivere settimane intere soltanto di pane ed acqua, il pensiero di assicurare a tutti gli uomini il libero sviluppo delle loro facoltà lo persei*uita sempre, e gli fa scrivere libri e progetti di un rinnovamento completo della società nell'ordine economico, scientifico, politico e religioso. Fra i molti errori che scemano il valore ef- fettivo delle sue opere, non mancano idee ge- niali e feconde, quali: fede nel progresso - principale scopo delle istituzioni sociali il mi- glioramento delle sorti del maggior numero - al regime statale e militare tramontato, deve succedere il regime industriale - l'umanità é un ente collettivo in continuo sviluppo. Caposaldo del rinnovamento da Saint-Simon preconizzato è un grande parlamento europeo, nel quale entrerebbero gli uomini più eminenti del commercio, della magistratura, delle indu- strie e delle lettere. Questo parlamento, oltre la trattazione degli interessi generali civili d' Eu- ropa, tratterebbe anche quelli religiosi; sarebbe una specie di Concilio, il cui primo incarico sarebbe quello di redigere un Codice di morale universale. In attesa di questo parlamento, che non po- trebbe essere istituito prima di vedere tutte, o quasi tutte, le nazioni d'Europa rette da istitu- zioni rappresentative, Saint-Simon vide nell'al- leanza dell'Inghilterra e della Francia la salvezza d'Europa, e fu non ultimo suo merito di avere propugnata quest' idea, quando più vivi erano gli odi fra le due nazioni. La proposta d'un parlamento europeo, che al tempo di Saint-Simon nessuno considerò come cosa pratica, sciolta dal suo mistico involucro, è divenuta da un ventennio in qua l'idea fon- 25 damentale di parecchi antibelligeri, che vedono in essa la guarentigia e la base d'una vera e durevole pace. Le prime Società per la Pace. Gli Stati Uniti d'America - dove la dottrina della pace predicata dal cristianesimo, sciolta da ogni vincolo di politica e di governi, aveva messo più salde radici - che contro voglia si erano messi in guerra coli' Inghilterra per la rivendicazione della propria indipendenza, dove la pace era anche più apprezzata perchè frutto della libertà, furono il paese che diede al mondo le prime Società per la pace. Fu in seguito ad uno scritto del Dott. Noah Worchester, pubblicato nella rivista americana Solemn review of the cusloms of the war, che metteva in terribile luce gli orrori e le iniquità delle guerre, che venne fondata la New York Peace nel 1815. A questa seguirono quasi subito altre società somiglianti, negli Stati dell' Ohio e del Massachussett. Nel 1815 un giornale inglese The Philanthropist pubblicava un articolo inspirato agli stessi sen- timenti di quello dell' americano Worchester e otteneva un effetto analogo, dando motivo ad alcuni filantropi di fondare in Londra (11 giu- gno 1816) la prima Società inglese della Pace, The Peace Society, quella che esiste tuttora pre- sieduta da Sir J. Peace, e della quale è bene- merito segretario il Dott. Evans Darby. Queste prime società, le quali sorsero quasi contemporaneamente senza che le une sapes- sero dell'esistenza delle altre, impiegarono la loro attività tenendo parecchi meetings, pub- blicando e diffondendo opuscoli di propaganda, 26 e mandando in giro missionari a far proseliti in diversi paesi. Sono trascorsi più di 85 anni da quel tempo, e i mezzi di azione delle Società per la Pace non son mutati. Esse crebbero di numero, e ciò che allora veniva predicato per solo impulso religioso o filantropico, ora si propugna spe- cialmente come necessità d'ordine economico • e poiché i punti più estremi del globo si sono avvicinati, e quasi tutte le nazioni d'Europa sono ora arbitre delle proprie sorti, e tutti i popoli civili, in continuo contatto fra loro, sono ormai compresi della solidarietà dei loro interessi, si può vedere più sicura e più vi- cina quella pace universale, che nel 1815 do- veva sembrare ai suoi più fer.vidi propugnatori meta lontanissima. Onore e gloria ad essi che ebbero fede nell'umanissima idea, e che ad- ditarono alle società che vennero poi, le vie da seguire ! 27 Il Congresso di Vienna e la S.'^ Alleanza A Vienna. Davanti al gran nemico, che anche dopo i rovesci di Russia avrebbe potuto rialzare con un colpo del suo genio guerresco la sua ca- dente fortuna, i re compresero che per vin- cerlo dovevano fare assegnamento sopratutto su quei sentimenti di nazionalità. e di libertà che il despota universale aveva tanto brutal- mente e stolidamente calpestato. E a leggere i loro manifesti di quel tempo, da quello di Kalisch al manifesto di Chatillon, si direbbe che r anima di Kòrner, il novello Tirteo, si fosse in essi trasfusa. Affermavano che « le nazioni d'allora in poi avrebbero rispettato reciprocamente la loro indipendenza »; promettevano che nessuno si sarebbe più innalzato « sulla rovina d'altri Stati una volta liberi » e solennemente dichiaravano che « scopo della guerra, come della pace, non era se non di porre in saldo i diritti, la libertà, l'indipendenza di ciascuna nazione. » Epperò quando il colosso fu per la seconda volta irremissibilmente atterrato, tutti spera- rono che a Vienna, dove i sovrani coalizzati s' erano riuniti a congresso coi loro ministri, si sarebbe costituito un'assetto detìnitivo d'Eu- ropa, basato sul diritto universale delle genti, e tale che. rispettando i diritti di ciascun po- polo, avrebbe assicurato la pace generale per lunga serie d'anni. 28 Così non fu. Trovatisi arbitri di disporre dei destini d'Europa, i re e gì' imperatori, i quali avevano vinto Napoleone forti del sentimento di avversione , eh' egli calpestando i diritti dei popoli, aveva in tutti suscitato, non pen- sarono che a copiarlo. E i popoli, che ave- vano dato tanto del loro sangue per condurre quei re alla vittoria, essi trattarono come servi o vassalli, di cui potessero disporre a loro ta- lento. In quella spartizione d'Europa le quattro maggior.i potenze si fecero la parte del leone, pigliandosi la Russia la miglior parte della Polonia, la Prussia buona parie della Sassonia, l'Austria il Veneto e la Lombardia, l'Inghilterra Malta, l'isola di Helgoland e il Capo di Buona Speranza. Dopo aver preso per sé medesimi i bocconi più ghiotti, divisero il resto fra i principi mi- nori, loro vassalli e clienti, come bottino - se- condo la frase tipica di Thiers - trovato in una città presa d'assalto. E cosi, tagliata l'Italia a fette, diedero la To- scana alla casa di Lorena perchè austriaca, Lucca alla casa d'Este, Parma, Piacenza e Gua- stalla all'ex imperatrice Maria Luigia, la se- conda moglie di Napoleone, figlia dell'impera- tore Francesco d'Austria. Al Piemonte, per renderlo più forte contro la Francia, i territori dell'antica repubblica di Genova, sebbene Lord Bentick, commissario inglese, avesse promesso ai genovesi il rista- bilimento del loro antico Stato. Il Belgio, già posseduto dall'Austria, strappato alla Francia, fu dato all'Olanda; la Svezia, privata della Fin- landia, già presa dalla Russia, fu ingrandita colla Norvegia, specialmente in premio del pò- 29 tente ajuto che Bernadotte, già generale di Na- poleone, aveva prestato alla causa degli alleati. Gli antichi Slati secolari e mediatizzati di Germania, e Lubecca e Colonia, città anseatiche, che Napoleone aveva soppresso con un tratto di penna, non furono ricostituiti; le antiche franchigie liberali che godevano le popolazioni di questi e degli altri minori Stati, furono sop- presse ; e la Confederazione germanica, parto del genio sottile e poliziesco di Metternich, fu costituita su basi cosi eterogenee, che la sua principale caratteristica doveva essere il dua- lismo fra l'Austria, fatta presidente della Con- federazione, e la Prussia, che disponendo di un numero di voti eguale a quello dell'Austria, vi entrava con un numero assai maggiore di abi- tanti. In quell'arbitrario rimaneggiamento della carta d'Europa, la Norvegia fu il solo paese che protestò fieramente contro la sorte che le si volle imporre. Essa lottò con coraggio, e non si arrese alle armi inglesi mandate a domarla, se non a patto che fosse rispettata la Costitu- zione eh' essa si era data. La Santa Alleanza. Nell'assenza d'un qualsiasi concetto giuridico nel nuovo assetto d'Europa, col quale distac- caronsi provincie e regioni dai loro centri na- turali per aggregarle a Stati coi quali non ave- vano rapporti né d'interesse, né di simpatie, e trattaronsi i popoli come eterni pupilli, desti- nati a formare in perpetuo la grandezza e la felicità di poche famiglie regnanti, sta la causa principale dei tanti rivolgimenti interni e delle guerre che insanguinarono le più belle con- trade d'Europa nel secolo decimonono. 30 Ma quando, dopo parecchi mesi di' discus- sione, i quattro maggiori arbitri d'Europa po- sero la loro firma aU"atto finale del Congresso di Vienna, credettero sul serio di avere posto le basi ad una solida unione d'Europa, da cui sarebbe venuta lunga pace e prosperità a tutti i popoli che la compongono. E a raffermarli in questa loro illusione do- veva concorrere lo spirito di reazione alle idee popolari, che in quel momento si mani- festò più o meno forte in quasi tutti i paesi. In molti il desiderio dei riposo, dopo tanti anni di sussulti e di guerre, si tradusse in un sentimento d'odio contro lo spirito di libertà che dalla Francia della rivoluzione si era dif- fuso in Europa. Non era stato Napoleone innalzato sugli scudi dalla rivoluzione? Non si era egli sempre van- talo di essere il vero rappresentante dei prin- cipii dell' 89? A quali eccessi conduca lo spirito di libertà, non contenuto dal sentimento religioso e da sovrani inviolabili, non lo avevano luminosa- mente dimostrato gli eroi della ghigliottina, i fasti del Terrore? Perciò l'opinione dominante, sempre troppo, semplicista nei suoi giudizii, non appena li- berata dal pericolo napoleonico, si affrettò a imputare alla libertà tutti i mali che l'Europa aveva sofferto da venl'anni, per colpa invece di colui e di coloro che la libertà avevano mag- giormente conculcata e ferita. Questo spirito di reazione fece alzar la testa in Italia al partito dei nobili e dei sanfedisti, che in Milano, dopo aver fatto massacrare da plebe avvinazzata il ministro delle finanze, s'affrettò a chiamare gli austriaci, per non dar tempo al 31 partito italiano di salvare il meglio che pote- vasi del regno italico, e in altre parti d' Italia fece rimettere in vigore gli antichi editti del- l'assolutismo. In Francia si manifestò in una feroce persecuzione, nelle piccole città e nelle campagne, contro quanti erano in voce di nu- trire sentimenti liberali, fra i quali essere protestanti era già un titolo di condanna. In Germania avvenne ciò che si vide in Italia dopo il 1860, che i più ardenti patriotti, i quali avevano maggiormente contribuito, col fascino che esercitavano sulle moltitudini, alla libera- zione della patria, furono messi in disparte, dopo la vittoria, come uomini compromettenti e pericolosi. Per tutti quei retrivi i diritti e i doveri di nazionalità erano l'ultimo dei pensieri; ciò che ad essi importava era veder assicurata la propria posizione sociale da governi forti, be- nevisi alla autorità chiesastica, di cui si erige- vano protettori. Soddisfacendo i desiderii di costoro, che in quel momento eran quelli che facevano ru- more, e che s'erano impadroniti nelle munici- palità e nei Consigli provinciali dei posti già occupati dai partigiani di Napoleone, gli arbitri coronati del Congresso di Vienna, dovevano cre- dere di trovarsi all'unisono colla opinione pub- blica europea. «Era necessario», ebbe a dire il diplomatico russo Gapodistria al conte di Brusasco, amba- sciatore di Vittorio Emanuele, che si lagnava dei mali fatti all'Italia dal Congresso di Vienna, « era necessario dar la pace all'Europa e darla « subito; il riposo era il primo bisogno, era il « bisogno universale, e non poteva conseguirsi € che per mezzo dell' unii)n€. » 32 L'unione a cui si riferiva il diplomatico russo era quella dei sovrani che avevano avuto principale parie nell' opera del Congresso di Vienna. Questo fu cliiuso il 9 giugno 1815, nove giorni prima della battaglia di Waterloo. Il 26 settembre del medesimo anno, gli impera- tori d'Austria, di Russia e il re di Prussia, an- nunciavano da Parigi la costituzione della Santa Alleanza con un Manifesto, del quale, come segno caratteristico del tempo, almeno il pream- bolo merita di essere testualmente riferito: « In nome della Santissima e indivisibile « Trinità. « Le loro Maestà l'imperatore d'Austria, il « re di Prussia, l'imperatore di Russia, in se- « guito ai grandi avvenimenti che hanno segna « lato in Europa il corso degli ultimi tre anni, « e specialmente dei beneficii che piacque alla « divina Provvidenza di spandere sugli Stali i « cui governi avevano posto in essa sola la « loro fiducia e le loro speranze, avendo ac- « quistato l'intima convinzione che è necessario, « nei loro mutui rapporti, di stabilire il sistema « da seguire sulle verità sublimi che c'insegna «l'eterna religione di Dio Salvatore; Dichia- « rano solennemente che il presente atto non « ha per iscopo che di manifestare in faccia « all' universo la loro incrollabile determina- « zione, di non prendere per regola della loro « condotta, sia nell'amministrazione dei loro « Stati rispettivi, sia nei loro rapporti politici « con qualsiasi altro governo, che i precelti di « questa santa religione, precetti di giustizia, « di carità e di pace, i quali precetti, lungi dal- •' l'essere applicabili unicamente alla vi la pri- V vata, devono al contrario influire diretta- « mente sulle risoluzioni dei principi e gui- 33 « dare tutta la loro condotta, come il solo « mezzo di consolidare le istituzioni umane e « di rimediare alla loro imperfezione ». Seguivano tre brevi articoli con cui dichiara- vano di voler rimanere «uniti coi vincoli di vera e indissolubile alleanza », e promettevano di prestarsi «in ogni occasione» «aiuto e soc- corso »; verso i loro sudditi si consideravano come « padri di famiglia «, per dirigerli nel me- desimo spirito di fratellanza, in prò della reli- gione, della pace e della giustizia. Si conside- ravano come membri di una sola e identica famiglia cristiana, e come rappresentanti della divina provvidenza, riconoscendo che la na- zione cristiana non ha altro signore che Dio, in cui si trovano tutti i tesori dell'amore, della scienza e della saggezza. E conchiudevano rac- comandando alloro popoli di «fortificarsi ogni giorno più nell'esercizio dei doveri, che il di- vin Salvatore ha insegnato agli uomini». Fini- vano, invitando le altre Potenze a riconoscere gli stessi principii ed entrare nella Santa Al- leanza. Non era diffìcile scorgere in questo manife- sto r opera personale dello czar Alessandro, il quale, come già accennammo, aveva seguito i consigli della sua segreta inspiratrice, la mi- stica baronessa Krùdner di Riga. Ma i precetti di giustizia, di carità, di pace, insegnati dal cristianesimo, a cui i tre mo- narchi si riferivano nel loro manifesto, non erano stati riassunti dalla medesima rivolu- zione nella memoranda formola : Libertà, Egua- glianza, Fratellanza"? Il completo accordo della politica colla religione e colla morale, in cui tutto^il manifesto si riassumeva, non era sem- pre stato invocato e propugnato dai filantropi 3 34 d'ogni paese, e dai più ardenti patrioti nella guerra contro Napoleone? Se dunque alle pa- role del manifesto avessero corrisposto gli atti dei monarchi che lo avevano bandito, i libe- rali d'ogni paese, pur facendo le loro riserve sulla pretesa soggezione figliale dei popoli ai principi, lo avrebbero accolto con compiacenza, come documento annunziatore d'una nuova èra di giustizia e di vera pace. Disgraziatamente 1' opera a cui i tre contra- enti della Santa Alleanza avevano dato mano nel Congresso di Vienna era li a contraddire ogni parola del loro manifesto. La loro illusione che gli interessi della ci- viltà e della pace avrebbero trovato tutte le garanzie nell'esercizio incontrastalo della loro autorità assoluta, era cosi sconfinata da non accorgersi che violando, come avevano fatto, i diritti dei popoli e trattando questi come antichi servi della gleba, si erano condotti né cristianamente, né umanamente. Se avessero avuto più chiara nozione della forza irresistibile dello spirito nuovo di nazio- nalità e di libertà, ben diversa sarebbe stata la loro opera.. Cosi fu perduta una stupenda occasione di dare valide garanzie e solide basi alla pace, e invece della vera, libera e feconda unione eu- ropea, ne fu fatta una tutta artificiale e anti- giuridica. Creata dall'arbitrio e sostenuta dalla violenza, doveva essere, prima o poi, dalla vio- lenza distrutta. 35 Le prime guerre per la libertà e per l'indipendenza IN Europa. I tre coronati, che subito dopo il Congresso di Vienna si strinsero in alleanza per mante- nere incolumi le stipulazioni del Trattato là stipulato , credettero sul serio di aver fatto opera assicuratrice di lunga e prospera pace. Se questa, come pare, fu la loro intenzione, gli effetti furono affatto opposti, e tali non po- tevano non essere. Dopo il raggio di luce portato dalla rivolu- zione francese nella coscienza dei popoli, non era possibile che questi dovessero rimanere a lungo rassegnati davanti alla iniqua spoglia- zione dei loro diritti, vivendo in perpetuo ser- vaggio. Tuttavia ci fu ai tempi nostri un dottrinario rivoluzionario e anarchico, il Proudhon, chein quel suo libro, più paradossale che filosofico. La Guerre et la Paix, osò scrivere parecchie pagine in difesa del Trattato di Vienna. Un'idea buona - rapita non a Napoleone, come questi pretese, ma alla rivoluzione - gettata in queir alleanza, era la base d' una più intima unione europea; ma l'idea era stata guastata dalla pretesa di quei regnanti di voler vedere negli interessi generali soltanto gli interessi dinastici, e di considerare i popoli come aggre- gati privi di personalità morale. 36 Gli avvenimenti non tardarono a mostrar loro il grande errore in cui erano caduti, ma invece di trarne profitto per cercar di correggere mano mano l'opera propria, dando volta per volta soddisfazione alle legittime aspirazioni dei po- poli , non fecero che peggiorarla, trattando quanti manifestavano desiderio di libertà, o si agitavano in nome della nazionalità, quali ri- belli da tener soggetti colla forza. In Germania, dove il sentimento nazionale e liberale s'era manifestato con maggiore vigoria nelle guerre contro Napoleone, le feste del 1817» in commemorazione del terzo centenario della Riforma, furono occasione a grandi manifesta- zioni patriotiche, alla testa delle quali profes- sori e studenti di Università reclamavano dai principi il mantenimento delle promesse date di libere costituzioni. Soltanto il re di Baviera si decise nel 1818 a dare una Costituzione al suo popolo. Questa prima vittoria diede al movimento li berale germanico più forte impulso, e sarebbe divenuto irresistibile, se non venivano a com- prometterlo gli assassini politici del commedio- grafo e giornalista Kotzebue, pugnalato dallo studente Maurizio Sand, perchè sospettato agente della Russia, e del presidente della reggenza di Nassau, Ibell, ritenuto nemico delle idee li- berali. Ciò servi di pretesto ai principi tedeschi, riuniti nel Congresso di Carlsbad, per adot- tare nuove misure di rigore contro l'espan- sione delle idee liberali. Le Università tedesche furono poste sotto una speciale sorveglianza; il re di Prussia non volle più saperne della pro- messa Costituzione, e quello di Baviera mise sotto chiave quella che aveva già promulgata. 37 Nello slesso tempo lo czar Alessandro, per non essere dammeno dei principi tedeschi, non curandosi della Costituzione promessa ai po- lacchi, iniziava contro di essi quella politica di compressione e di persecuzione, che do- veva rendere indistruttibile il loro odio alla dominazione moscovita. Non soltanto in Germania, ma un po' dap- pertutto, specialmente nei paesi latini, la scossa data allo spirito pubblico dalla rivoluzione francese, e il sentimento nazionale, qua concul- cato, altrove da Napoleone accarezzato, avevano lasciato negli animi della parte più colta delle popolazioni aspirazioni di libertà. Nel 1820 una sollevazione in Spagna, congiure in Napoli e Piemonte, seguite queste da paci- fiche rivoluzioni, decisero re Ferdinando di Napoli e Cari' Alberto , reggente lo Stato di Piemonte in assenza del re, di accettare le Costituzioni che, nel pensiero dei liberali, do- vevano stringere l'unione del re col popolo. La causa del progresso e della pace in quei paesi ne sarebbe stata certamente avvantaggiata. Ma i sovrani della Santa Alleanza temettero che il mal esempio si propagasse, e riuniti in nuovo Congresso a Troppau, diedero man- dato all'Austria di reprimere colle armi il mo- vimento liberale tanto in Napoli come in Pie- monte ; ciò che l'Austria conseguì senza gravi fatiche, dopo un simulacro di battaglia ad An- trodoco (regno di Napoli) e a Novara (Piemonte), grazie alla inettitudine dei capi dei aue eserciti costituzionali. Ciò accadeva nel 1821. Due anni dopo, vista l'estensione e la forza che in Spagna prendeva il partito liberale, a cui aderivano le città più importanti del regno, 38 oli stessi rappresentanti della Santa Alleanza, riuniti in un terzo Congresso a Verona, davano alla Francia monarchica l'incarico, da essa ambito, di ristabilirvi l'assolutismo. Vi andò con 100,000 uomini il principe d'An- goulème, il quale colla presa di Cadice com- piva la sua non gloriosa missione, senza al- cuna protesta in Francia di liberali e di na- poleonidi, che in quella spedizione vollero vedere solamente l'occasione di rinverdire i lauri delle armi francesi. Per non diverso mo- tivo non si opposero più tardi alla spedi- zione d'Algeri, la quale, se poteva essere giusti- ficata in origine per liberare il Mediterraneo dalle scorrerie dei pirati algerini, non lo fu sempre posteriormente, quando si volle colla forza sottomettere le tribù interne dell'Algeria, contro le quali la Francia sostenne una guerra neppur oggi finita, e il cui principale risultato fu di aver reso odioso, Dio sa fin quando, il nome cristiano a tutto il mondo musulmano. Ristabilito l'assolutismo in Spagna, in Pie- monte, nel Napoletano, già imperante in Austria e Germania, i sovrani della Santa Alleanza cre- dettero di avere assicurata l'opera loro su basi incrollabili. Invece la resero più precaria di prima, perché, perduta la speranza di una con- ciliazione fra il vecchio diritto divino dei re e quello dei popoli, questi, agitati dallo spirito di libertà, che non muore mai, dovettero d'allora in poi vedere nei governi dominanti colla forza, altrettanti nemici da debellare, non appena le circostanze l'avrebbero loro concesso. Un contegno non meno improvvido e ancor più inumano, tennero le potenze europee, di fronte alla Grecia insorta contro 1' impero turco. 39 Innumerevoli furono gli atti di valore e di sacrifici compiuti dai greci in quella loro lotta, che durò otto anni, per sottrarsi all'abborrito giogo. Preti, frati, monache, vecchi e donne, vi presero parte, preferendo la morte alla vita dello schiavo. Una giovane bella e ricca, Modena Maurogenia, di Micone, avuto morto il padre, arma a sue spese un vascello, solleva l'Eubea e promette la sua mano al vincitore dei turchi. Le arcadi sospendono alla Madre di Gesù le corone nuziali, dichiarandosi vedove, se la viltà dei mariti lascia la vittoria agli ottomani.. A Corinto, a Nauplia, alle Termopili, ad Argo Demetrio Ypsilanti, Marco Botzaris, Coloco- droni fanno prodigi di valore ; pochi brulotti di Canaris affrontano la flotta turca a Tenedo, sebbene difesa da inglesi e da austriaci, accorsi in difesa del turco. A Nauplia 18,000 greci tennero assediati 55,000 turchi. Davanti a cosi eroici sforzi tutti i popoli di Europa applaudivano : Gomitati filleleni racco- glievano armi, uomini, denari da spedire in Grecia; giovani ricchi, studenti, artisti, soldati delle guerre napoleoniche corrono in loro aiuto; Giorgio Byron e Santorre Santarosa le danno la vita. I governi d'Europa intanto si ostinano fino all'ultima ora a difendere la causa turca. Mentre coU'autorità che loro conferiva la di- fesa degli interessi della civiltà e dell'Europa, le quattro potenze della Santa Alleanza avreb- bero potuto con un atto energico di volontà imporre al turco, fin dal principio della lotta, la pace e lo sgombro da ogni paese, dove la popolazione cristiana era insorta in nome della IO civiltà e del cristianesimo, lasciarono che per nove anni avvenissero spaventevoli stragi, piut- tosto che pregiudicare, com'essi credevano, la causa dei re, dando ragione alla rivoluzione. Fu solamente dopo il sacrificio di Missolungi, quando temettero che la Russia avrebbe preso le armi in difesa della Grecia, che si decisero d'imporre la pace al sultano. Avendo questi rifiutata la mediazione, le Hotte d'Inghilterra, di Francia e di Russia, assalirono a Navarino la flotta turca, e la distrussero così completamente, che da quel giorno non potè più risorgere. Riconosciuta e proclamata dalle grandi po- tenze d'Europa l'indipendenza della Grecia, la corona, da altri rifiutata, fu oiferta a Ottone di Baviera, che l'accettò. Le Rivoluzioni dell'America Meridionale. Le colonie dell'America Meridionale, ch'erano rimaste insensibili davanti allo spettacolo della conquistata indipendenza dell'America del Nord, ebbero dall' Europa i primi impulsi a liberarsi dalla dominazione spagnola. Durante la rivoluzione francese erasi formata a Bogota (Nuova Granata) un' associazione, la quale, a scopo d'indipendenza, mandò in giro la dichiarazione dei Diritti dell'uomo. Scoperti i suoi membri, incarcerati e spediti in Spagna, il moto insurrezionale abortì. La sollevazione di Spagna contro Napoleone e i manifesti delle Giunte insurrezionali trova- rono nell'America Meridionale uomini risoluti a trarne profitto per l'emancipazione dei loro paesi; e fu ancora a Bogota dove nel 1810 s'in- nalzò il primo grido d'indipendenza, e s'intimò 41 al viceré della Nuova Granata di andar via da un paese che voleva esser libero. Dopo quel primo successo, anche le altre Co- lonie, una dopo l'altra, avendo alla loro testa valorosi condottieri, innalzarono la bandiera dell'indipendenza. Della fortuna di quelle lotte e del valore dei due maggiori capitani. San Martin e Simon Bo- livar, avendo già parlato nella Vita Interna- zionale il Dottor Giusto Calvi (i>. qui basterà ricordare come i liberali spagnuoli , strenui rivendicatori del diritto nazionale contro Na- poleone, lo conculcavano in America, mandando truppe a reprimere le sollevazioni che là, da Buenos Aires a Caracas, avvenivano per la con- quista dell'indipendenza. Fortunatamente, anche là gl'insorti per la libertà si mostrarono dovunque più forti e più valenti dei capi spagnuoli combattenti per l'op- pressione. Nel 1813 Bolivar dalla Nuova Granata porta le armi liberatrici nel Venezuela. Con 500 com- battenti assale V esercito spagnuolo, forte di 6000 uomini, comandato dal gen. Monteverde;e con quel pugno di gente, come scrisse Cesare Cantù, " difende la rivoluzione, quando appunto Buonaparte con cinquecento mila uomini la lasciava perire in Europa. « A Samagosa, dopo 43 giorni di marcia, var- cate le Ande, più diffìcili delle nostre Alpi, sor- prende gli spagnuoli e li sbaraglia completa- mente. Libere tutte le terre del Piata, da Buenos Aires a Tucuman, gli insorgenti, guidati da San Martin, (1) L'Argentina nei numeri 24 e 25 della T ita Inter- nazionale, anno 1901. 42 pensano di cacciare gli spagnuoli anche dal Chile. Con 4000 'uomini, dopo aver percorso trecento miglia valicando montagne elevatis- sime, alTrontano gli spagnuoli, e vincono; e dopo lunga resistenza il primo dell'anno 1818 i rap- presentanti del Chile riuniti in assemblea, con solenne augurio « alla grande Confederazione del genere umano», ne proclamano l'indipen- denza. Non polendo vincere gli insorti colla forza, i generali e governatori spagnuoli credono di domarli col terrore; e decretano morte a chi sarà preso coU'armi alla mano o abbia favorito la rivolta. Gli ufficiali degli insorti caduti pri- gionieri erano fucilati; corpi interi, arresisi, pas- sati per le armi. A tanta ferocia gli insorgenti rispondevano con rappresaglie non meno crudeli; e Bolivar proclama anch' egli la guerra a morte; e alle minacele fa seguire gli effetti. Ciò che prova come in guerra, anche chi combatte per una causa giusta, resiste difficilmente alla voce della vendetta. Colle vittorie di Lima, Perù, (1819), di Tana- quillo. Nuova Granata, (1821) e di Ayachuco Perù, (1824) in tutta l'America spagnuola, da Bue- nos Aires al Chile, dal Chile al Perù, dal Perù alla Nuova Granata, non ci son più segni di dominazione spagnuola, e al posto degli an- tichi vicereami castigliani sorge una costella- zione di giovani Repubbliche, splendide di belle promesse: la Confederazione Argentina l'Uruguay ed il Paraguay lungo il Piata; ad occi- dente il Chile e il Perù, la Bolivia e l'Equa- tore ; al Nord la Colombia ed il Venezuela, poi il Messico, e di li a non molto il Guatemala. Queste Repubbliche dell'America latina eb- 43 bero la fortuna, come l'aveva avuta l'America del nord, di non aver avuto fra i loro liberatori un Buonaparte. Il generale San Martin dopo avere liberato il Chile e il Perù, vinta l'ultima guerra, ricusò il titolo di generalissimo, contento di quello con- feritogli dai suoi commilitoni, di primo soldato della libertà. Ritirandosi a vita privata, così scrisse a co- loro che lo volevano al governo: « La presenza d'un guerriero fortunato, torna sempre pericolosa a Stato nuovo.... Più che com- pensato da dieci anni consunti in rivoluzioni e nei campi, compii la promessa fatta ai diversi paesi ove combattei, di renderli indipendenti, e lasciare che si scegliessero essi il governo. » Non meno disinteressato e rigido repubbli- cano si mostrò il Bolivar. Offertigli gli onori del trionfo e la suprema magistratura dopo la vittoria di Tanaquillo, ri- cusava con queste nobili parole : « Un par mio è pericoloso in governo popolare; desidero rimanere semplice cittadino, per essere libero io e tutti. » Nominato, lui riluttante, presidente della re- pubblica di Colombia, con poteri dittatoriali, manda le dimissioni, scrivendo : « Per amore del mio buon nome desidero torre ai miei concittadini ogni timore, e assicurarmi dopo morto una memoria degna della libertà t^. Al principio del 1830 rinuncia irrevocabil- mente alla presidenza, risoluto, come Solone, a espatriare. « Mi ritiro, disse ai colombiani, affinché la mia presenza non sia ostacolo alla felicità dei miei concittadini. È il bene del mio paese che mi impone la dura necessità d'un esilio eterno dalla mia patria. » 44 E perchè alcuni sospettavano quella sua ab- negazione non fosse che una fìnta per farsi of. frire la corona, « Mi credono cosi insensato - ebbe a dire - da aspirare a degradarmi? Il ti- tolo di liberatore non e più glorioso di quel di sovrano ? » Mori quand'era in procinto di lasciare l'Ame- rica. Un guerriero egualmente vittorioso come Bo- livar, e, come lui e come Washington, sde- gnoso di onori supremi, lo ebbe nel secolo ultimo anche l'Europa, e quest'uomo è nostro : Garibaldi! 45 La rivoluzione francese del 1830 La Santa Alleanza era stata coerente nella sua politica reazionaria. Non riconoscendo nei po- poli una qualsiasi personalità giuridica, aveva compreso nella sua avversione tanto il princi- pio di nazionalità quanto le Costituzioni. Essa considerava lo Stato come cosa personale del principe, responsabile dinanzi a Dio solo del- l'uso della sovranità. Ma i Borboni portati in Francia, nel 1814 e 1815, sui carri della Santa Alleanza, furono ben lieti di poter riguadagnare il trono dei loro avi a prezzo di una Carta costituzionale, nella quale, a somiglianza di quella inglese, le at- tribuzioni del re erano limitate dalla responsa- bilità dei ministri, e i diritti della nazione garantiti da una Camera elettiva (il Senato era di nomina regia). È ben vero che gli elettori erano in tutta la Francia non più di 200 mila, formati da con- tribuenti, che pagavano non meno di 300 fran- chi all'anno d'imposte dirette. Ma una monarchia costituzionale non può du- rare, se non ha forti radici nel sentimento po- polare, o, mancando questo, l'appoggio di una classe dirigente non al popolo invisa. Ora a Luigi XVIII mancava assolutamente la prima di queste condizioni, perchè il popolo, specialmente nelle campagne, man mano che si allontanavano le memorie delle innumere- voli vittime da lui date al gran guerriero, 46 aveva per Napoleone un cullo che teneva del felicismo, in esso mantenuto dai racconti dei vecchi soldati della Grande Armata, che di Napoleone esaltavano ogni atto, ogni parola, ogni gesto, e grnzie ai poeti, ai novellieri, a Beranger sovratutto, i quali con immensa incoe- renza, per amore di opposizione alla monarchia, diedero all'epopea napoleonica il tributo della loro fantasia. V'era bensì una classe ricca di coltura e di ingegno, devota alla dottrina costituzionale, desiderosa di fare della Francia l'Inghilterra del continente, ma mancava fra essa e il prin- cipe quella fiducia, che in un paese sconvolto per molti anni da rivoluzioni e da guerre, è necessaria a superare gli ostacoli che interessi e passioni frappongono sovente al pacifico fun- zionamento d' un governo rappresentativo. Le simpatie di Luigi XVIII erano tutte per il partito dei nobili, il quale nulla avendo im- parato dalle terribili lezioni della Rivoluzione, considerava come un' usurpazione sui diritti della Corona ogni nuovo passo che il parla- mento tendeva a fare nella via della libertà. Certo è che fin dai primi anni della Restau- razione, fra il partito di Corte, che metteva in prima linea il diritto della Corona, e quello costituzionale, che poneva come base il diritto delia nazione, apparve un antagonismo, che presto o tardi doveva condurre ad aperta rottura. Ma Luigi XVIII, uomo scaltro e temporeggia- tore, aveva l'arte di non urtare di troppo contro i sentimenti della maggioranza, e di mutar rotta davanti a pericoli gravi; pur vedendo nella Carta un ostacolo all'esercizio della sua sovra- nità, preferiva ministri che la eludessero nello spirito, rispettandone la lettera. 47 Venuto al trono, dopo la sua morte, il fra- tello Carlo X, anche la lettera fu violata. Le famose ordinanze del ministero Polignac - colle quali veniva sciolta la Camera appena eletta, perchè aveva il peccato originale di es- sere in maggioranza liberale; mutilato il già ristretto corpo elettorale e sottoposta la stampa all'arbitrio dei prefetti e del fìsco, - furono il segnale di una lotta ad oltranza fra il par- tito costituzionale e la monarchia. Durante il periodo elettorale, visto il suc- cesso favorevole ottenuto sullo spirito pubblico dalla presa d'Algeri, il ministero aveva fatto pratiche per un'alleanza colla Russia, sperando per essa di riprendere le frontiere del Reno, ma gli mancò il tempo di mandarle ad effetto, Al primo annunzio delle ordinanze un grande fermento invade Parigi. Thiers, Mignet, Leroux, Armand Carrel, Chà- telain e altri, che salirono poi ad alta fama, rappresentanti di tutti i giornali parigini, pub- blicano una vigorosa protesta contro le violate libertà. Non ostante il divieto, i giornali si pubbli- cano, obbligando l'autorità a ricorrere alla forza per sopprimerli. Anche la Sorbona, la dottrinaria Sorbona, fa eco alle pubbliche rimostranze. Queste però non sarebbero uscite dalla via della legalità, senza l'opera d'un partito, scarso di numero, ma forte di fede e di coraggio, il partito repubblicano, formato specialmente da studenti e da antichi militari. Già tre anni prima, in occasione delle ele- zioni, aveva fatto le barricate, le prime che, dopo la Fronda, Parigi aveva vedute. Nella prima rivoluzione le colonne degli insorgenti .^ _, - ^ .. 48 prendendo sempre l'offensiva, non avevano sen- tito il bisogno di combattere dietro ripari. Questo partilo, che aveva segreti legami con La Fayette, aveva fatto lega, negli ultimi mesi, con altri gruppi di studenti, che avevano a loro capo Goffredo Cavaignac, figlio d'un con- venzionale. Tutt'insieme potevano formare da 8 a 10,000 combattenti. La guarnigione non superava in quei giorni più di 11,000 uomini, tanto lontani erano il go- verno e la Corte dal prevedere un'insurrezione. Il 27 luglio i repubblicani tirarono alcune fucilate ed eressero le prime barricate. Il 28 i quartieri della parte orientale della città, for- mati da labirinti di strette e tortuose vie, erano tutti irti di barricate. Gli insorti, diretti quasi dovunque da allievi della scuola politecnica, presero il palazzo di città e Nòtre-Dame, inalberandovi il vessillo tricolore. (Il vessillo dei borboni era bianco). I soldati mandati in due colonne dal gene- rale Marmont per debellare gli insorti, ricevuti in alcuni quartieri da colpi di fuoco, in altri da voci di donne che loro gridavano dalle fi- nestre: Non fate fuoco sul popolo, si arresta- rono davanti alle barricale del Sobborgo San- t'Antonio, per ritornare poi verso il centro e fermarsi vicino al Louvre. II 29 gli insorti presero l'offensiva nei quar- tieri dell'ovest, assalirono le truppe nelle ca- serme, gli svizzeri nelle Tuileries. Dappertutto la truppa, non ben diretta, troppo scarsa in una città vasta come Parigi, com- battè con titubanza. Una parte dei soldati, tutto il 33.0 di linea, passò agli insorti; il resto della guarnigione abbandonò Parigi. 49 L'insurrezione aveva trionfato. La vittoria era stata dei repubblicani ; ma essi sentivano che, pei cattivi ricordi che il 93 aveva lasciato, la repubblica aveva allora in Francia troppo pochi partigiani, e non fecero opposizione quando la « Commissione esecu- tiva », riunita nel palazzo di Città, risolse di offrire la corona a Luigi Filippo, il quale du- rante la restaurazione s' era tenuto sempre lontano dalla Corte, e in rapporti più o meno intimi con alcuni dei più eminenti liberali. Il manifesto dettato da Thiers, allora popo- larissimo, ne dava l'annuncio al popolo con queste parole : « Carlo X non può più rientrare « in Parigi, dove ha fatto versare il sangue del < popolo. La Repubblica ci esporrebbe a terribili « divisioni, e ci guasterebbe coU'Europa. 11 du- « ca d'Orléans é un principe devoto alla causa « della rivoluzione... Era a Jemmapes. Portò al « fuoco i tre colori e potrà portarli di nuovo. » La presentazione era abile, ma 1' allusione a probabili nuove battaglie, nella quale un gran numero di francesi doveva vedere poco meno che una promessa della riconquista delle rive del Reno, non era la meglio indicata per dire in quel momento alla Francia e all'Europa la via in cui si sarebbe messo il nuovo regno. Tre date culminanti della storia francese del- l'ultimo secolo : 1848, 1851 e 1870, trovano nei sentimenti e nelle speranze che quella frase ac- carezzava la loro spiegazione. Qualche giorno dopo le tre giornate di luglio, Luigi Filippo, col titolo da lui assunto di « re dei Francesi, per la grazia di Dio e la volontà nazionale » giurava fedeltà alla Carta, non più largita, ma imposta dalla nazione e da lui con- sentita. 50 La Fayette, nell'offrirgli la corona in nome del popolo vincitore aveva detto : « vogliamo « un regno circondato da istituzioni repubbli- « cane ». Fuori di F"rancia la rivoluzione di Luglio produsse una scossa immensa. Popoli e re ne furono impressionatissimi, vedendovi, i primi con gioia, i secondi con gran timore, una riscossa dell'SQ. Sarà il preludio di un nuovo 93? Il periodo delle grandi guerre fra la Francia democratica e l'Europa monarchica sta per riaprirsi? I popoli insofferenti della servitù, insorgendo contro le dominazioni loro imposte dai trattati del 1814 e 1815, troveranno nella Francia un appoggio o un nuovo padrone? Questi i dubbii che agitarono in quel tempo gran numero di patrioti e parecchi governi di Europa, ai quali i moti di li a poco avvenuti nel Belgio, indi in Italia e in Polonia, dovevano dare presto una risposta. Questa risposta, seguendo il suo proprio im- pulso, Luigi Filippo avrebbe potuto e dovuto darla subito. Egli che aveva partecipato alla più legittima e più gloriosa delle guerre, e aveva veduto a quali tristi risultati aveva con- dotto lo spirito bellicoso dei francesi, era della guerra più avversario che amico. Intelligente abbastanza per comprendere il carattere nuovo della civiltà, vedeva la più sicura grandezza della Francia nello sviluppo dei traffici e nelle conquiste della scienza. Tutto il problema consisteva nella possibilità di mettere d'accordo questo suo modo di com- prendere la nuova fase della storia di Francia e della civiltà cogli umori degli uomini e dei partiti sui quali come re costituzionale doveva contare. 51 È ciò che ora vedremo. Il Belgio, che le guerre della rivoluzione e dell'impero avevano unito alla Francia, e che, senza essere consultato, era stato dal Congresso di Vienna dato all'Olanda, fu il primo a se- guire l'esempio del popolo parigino. Fu il 25 agosto, un mese dopo le tre giornate di Parigi, che Bruxelles incominciò la sollevazione. S'era rappresentata La Muta di Portici di Auber, che contiene calorosi appelli alla libertà. Gli spettatori ne furono entusiasmati. Uscendo dal teatro assalirono gli uffici della polizia, e quello di un giornale ministeriale. L'indomani tutta la città era barricata, e il principe Federico, pri- mogenito del re, venuto pochi giorni dopo con 10,000 uomini, e padrone della città alta, dopo tre giorni di combattimento fu costretto alla ritirata. La commissione amministrativa, eletta per dirigere la resistenza, fu trasformata in Governo Provvisorio. In breve tempo il movimento si estese a tutto il Belgio, non rimanendo più all'Olanda che il possesso delle fortezze di Maestricht e di Anversa. 11 4 Ottobre il Governo provvisorio decretò : € le Provincie del Belgio, staccatesi dall'Olanda, formeranno uno Stato indipendente. » Era ciò che volevano i più caldi patrioti, che formavano il partito più numeroso. Ma sentendo in pari tempo il bisogno di avere nella Francia un valido appoggio, gli Stati Ge- nerali del Belgio, di lì a poco convocati, eles- sero a re il Duca di Nemours, secondogenito di Luigi Filippo. Questi, che aveva bisogno di rassicurare le al- tre grandi potenze delle sue intenzioni pacifiche, 52 mentre aveva lasciato partire pel Belgio un battaf^lione di volontari allestito dal partito repul)blicano, ricusò. Allora gli Stati Generali offersero la corona a Leopoldo di Sassonia Coburgo, il quale, gra- dito all'Inghilterra, accettò. Riunita nel frattempo a Londra una Confe- renza (ielle cinque Grandi Nazioni, nell'inte- resse della pace generale «chi' era loro propria causa » (diceva il protocollo del 19 febbraio), ri- conosceva « a unanimità » l'indipendenza del Belgio, tracciandone i confini (non compren- dendovi i distretti che vennero annessi al g*'an- ducato di Lussemburgo, e la fortezza di Mae- stricht, che rimaneva all'Olanda), e fissandone le condizioni (principale la neutralità). Era la prima volta che l'Europa monarchica, riunita in una specie di Anfizionato, dava causa vinta ad un popolo insorto, riconoscendo su- periore al diritto scritto dei trattati sanciti dalla forza, il diritto dei popoli a disporre delle proprie sorti. L'Olanda, non avendo voluto aderire alla de- cisione della Conferenza di Londra, riprese le ostilità contro il Belgio, e la Francia, richiesta di aiuto, mandò in di lui soccorso un esercito di 50.000 uomini, per far rispettare (diceva la nota ufficiale) « gli impegni presi di comune accordo colle grandi potenze. « La Conferenza, avutane comunicazione da Talleyrand, clic vi rappresentava la Francia, non potè opporvisi, ma dichiarò che conside- rava l'entrata delle truppe francesi nel Belgio " non come intenzione particolare della Fran- cia, ma per un oggetto a cui erano dirette le comuni deliberazioni. » La guerra non fu difficile, né molto cruenta; 53 si ridusse principalmente all'impresa di An- versa, dove, dopo un assedio sapientemente condotto, le truppe olandesi finirono a capi- tolare. La causa della indipendenza belga aveva trion- fato. La Francia poteva andar orgogliosa di que- sto risultato. L'aveva ottenuto dando prova di grande disinteresse, e. mentre rispondeva alle migliori aspirazioni della democrazia, facendo rispettare colle sue armi le decisioni della Conferenza di Londra. Quando si pensa che subito dopo le insur- rezioni di Parigi e di Bruxelles, le orde cosac- che, passata la Vistola, già si avviavano per unirsi agli eserciti di Prussia e d'Austria e invadere la Francia, e che questo pericolo fu sventato al punto d' ottenere una prima revi- sione dei trattati del 1814, non si può negare alla politica del governo di Luigi Filippo, in queste circostanze, il merito di aver fatto fare un primo passo al principio del diritto nazio- nale, senza compromettere la pace generale di Europa. Non v' ha dubbio che se avesse sempre se- guito tale via, la Francia avrebbe potuto ac- quistare nel consorzio delle altre nazioni una autorità morale, quale non aveva più avuto da gran tempo. Né per ciò occorreva che la Francia, facen- dosi paladina di tutti i popoli agitantisi per la propria indipendenza, si mettesse in guerra contro tutte le potenze interessate a tenerli oppressi. Mostrare la propria simpatia alla causa delle nazionalità oppresse, ma facendo sentire, a mezzo degli esuli rifugiati in Francia, che non 54 poteva, né voleva per esse mettere a soqqua- dro r Europa, esorlandoli a confidare nel tempo e nella forza sempre crescente dell'opinione pubblica liberale; dar pegno alle potenze del proprio amore alla conservazione della pace generale, a cui tutte molto tenevano, ma far loro ben comprendere, nello stesso tempo, che il miglior modo di conservarla era quello di rimuovere le cause di perturbazione con istitu- zioni conformi allo spirito dei tempi e alle aspi- razioni dei popoli; accadendo un'insurrezione in questo o quel paese, di carattere nazionale, adoperarsi, d'accordo possibilmente coll'Inghil- terra, ad ottenere l'intervento diplomatico di Europa, allo scopo di localizzarla e di dare al conflitto un' equa soluzione come si era fatto pel Belgio; - questa era la politica che più si addiceva ad un governo uscito da una rivolu- zione, che rievocava i principii dell' 89, di fronte ad una Europa nella quale la Santa Alleanza teneva ancora la prima parte. Ma per seguire questa politica occorreva che fra il governo di Luigi Filippo e la nazione ci fosse una piena corrispondenza di spirito ; oc- correva sovratutto l'appoggio franco e sincero della parte veramente liberale. Disgraziatamente, dopo i primi mesi di regno, caduto il governo di Luigi Filippo nelle mani di conservatori, che i principii della rivolu- zione avevano in uggia, e volevano esercitare il potere in modo poco diverso da quello con- tro cui la rivoluzione di luglio era stata fatta, quell'nppoggio mancò interamente. Vi erano inoltre allora nelle file della demo- crazia francese troppi giacobini e troppi chau- vins, i quali, invasati dei ricordi delle guerre 55 della rivoluzione e dell'impero, credevano che il dettar legge all' Europa fosse per una Fran- cia democratica un diritto e la cosa più facile del mondo. Nell'opinione di molti di cotesti patrioti il Belgio, subito dopo la sua insurrezione, avrebbe dovuto essere incorporato senz'altro alla Fran- cia, e fu considerata debolezza imperdonabile l'avere agito in quella questione d'accordo colla Conferenza di Londra. In conclusione, il nazionalismo, che oggi dà tanti fastidi ai partiti più liberali e al go- verno democratico di Francia^ c'era anche al- lora ; e che non fosse una forza del tutto tra- scurabile lo prova il discorso tenuto - nel breve tempo che fu al governo la sinistra li- berale - dal presidente del Consiglio, Laffìtte, il 1° dicembre 1830, alla Camera dei Deputati. « La Francia (diceva) non permetterà che il " principio del non intervento sia violato... " Noi non saremo se non più forti, quando " congiungeremo alla potenza delle nostre armi " la convinzione del nostro diritto... Quando " scoppiassero tempeste alla vista dei tre co- « lori, e venissero in nostro aiuto, noi non sa- " remo tenuti di renderne conto all'universo „. L'entusiasmo, dicono gli storici del tempo, sollevato da questo discorso nella Camera e nel Paese fu immenso ; se gli atti avessero do- vuto seguire alle parole, di lì a poco la Fran- cia doveva muover guerra alla Russia. Strana coincidenza! Due giorni prima che Laffìtte tenesse alla Camera quel suo batta- gliero discorso, Varsavia era insorta per la propria indipendenza, ma anche per simpatiaalla Francia ! 56 L'insurrezione polacca Dacché era salito al trono (182G), l'imperatore Nicolò non aveva mai convocato la Dieta po- lacca, e una fitta rete di società segrete, miranti all'indipendenza, abbracciava quasi tutta la Po- lonia. C era il partito dei grandi proprietari e dell'aristocrazia, detto dei bianchi, i cui voti si limitavano alla Costituzione promessa nel 1814, e riponevano le loro speranze nel suc- cessore di Nicolò ; e v' era il partito dei rossi, formato di giovani dell'università, di ufficiali e di all'evi militari, che agognavano alla totale indipendenza. Fino al 1830 il partito bianco aveva potuto frenare l'ardore del partito rosso, ma alla no- tizia della rivoluzione francese di luglio il secondo prevalse. L' insurrezione in Varsavia era stata decisa per la fine di febbraio. Ma venuto l' ordine che metteva l'esercito polacco sul piede di guerra, per portarlo contro ia Francia, l' in- surrezione fu anticipata. Cominciò all'alba del 29 novembre. V'erano alla testa due sottotenenti, Wysocki e Zaliwski. Di buon mattino diciotto allievi della Scuola degli alfieri, atterrate le sentinelle, invadono il palazzo del governatore per impadronirsi del granduca Costantino, il quale, destatosi al ru- more della lotta, fu appena in tempo a mettersi in salvo. Riuniti agli altri compagni, quei giovani ani- mosi assalgono 1' arsenale, affrontano i coraz- zieri russi, sollevano tutta la parte occidentale della città. Alcuni reggimenti, i cui capi face- vano parte della congiura, passano agli insorti. Battaglioni combattono contro battaglioni: gli zappatori contro le guardie a cavallo. In breve ora r insurrezione è generale. La lotta durò tutto il giorno contro le truppe rimaste fedeli al governo, disseminate nelle di- verse parti della città, e - grazie specialmente allo stordimento del granduca, che tenne ino- perosi sul campo di Marte tre reggimenti a cavallo - la vittoria rimase agli insorti. Sventuratamente essa fu macchiata da tre- mende vendette. Alcuni generali polacchi, un ministro e alti funzionari, che non vollero far causa comune coli' insurrezione, furono bar- baramente trucidati: avvertimento a coloro che vedono tutto bello e puro nelle lotte popolari. Padroni di Varsavia, gl'insorti elessero a loro capo il generale Chlopicki, che godeva fama di valoroso per aver acquistato i suoi gradi nelle guerre napoleoniche, ma politicamente e mi- litarmente inetto, privo di fede nelle guerre di insurrezione, e che fu non ultima causa della rovina della rivoluzione polacca. Questa non poteva vincere se non coll'appro- fittare dell'entusiasmo immenso che la vittoria di Varsavia aveva sollevato in tutta la Polonia, e dello sbalordimento ch'essa aveva cagionato nel governo russo; operando, cioè, con rapidità e vigore, chiamando sotto le armi centomila uomini, organizzandoli nelle marcie, ad esem- pio della rivoluzione francese negli anni 1792 e 1793, sollevando la Lituania, e portando la guerra nella Russia medesima. In quel momento il governo dello czar era 58 stremato di uomini e di denari, e se ad una azione vigorosa della insurrezione si fosse ag- giunto senza ritardo l'appoggio morale dell'In- ghilterra, e qualche aiuto materiale della Fran- cia, è assai probabile che il governo russo avrebbe finito per capitolare. Invece fin dai primi giorni l' Inghilterra si mantenne in rigoroso riserbo. Chlopicki, che, non contento del comando militare, volle es- sere anche dittatore, agi in modo da giovare alla causa del despota russo più che a quella della Polonia. Consumando in opere vane, come le fortificazioni di Varsavia, un tempo prezioso, lasciò che sbollisse l' entusiasmo dei primi giorni, avviò trattative col granduca Costan- tino e con Pietroburgo , quando si doveva combattere, non organizzò l'esercito, si mise in lotta colla parte democratica, chiuse i Cir- coli, fece arrestare il repubblicano Lelewel, letterato di bella fama, caro alla gioventù, e soppresse il manifesto col quale i migliori pa- trioti, narrate all' Europa le sventure patite, annunziavano spartanamente: «se la libertà della Polonia dovesse perire, il nemico non potrà regnare che sopra un deserto in mezzo alle rovine delle nostre città e ai cadaveri dei loro difensori. » Lo czar, che aveva simulato miti intenzioni finché non ebbe compiuto 1 suoi apparecchi guerreschi, divenne feroce quando fu pronto alla guerra. In una delle note da lui mandate alla Dieta di Varsavia, aveva scritto di suo pugno: «Io sono il re della Polonia, e ne farò scempio. 11 primo colpo tirato dai Polacchi, annienterà la Polonia. » Pur troppo mantenne la parola. Non ostante tali minaccie, la Dieta votò ad 59 unanimità la decadenza dei Romanoff e l'indi- pendenza della Polonia. Ma la sfiducia era già entrata nel campo de- gli insorti, e ad un esercito forte di 150,000 uomini, che lo czar inviò contro la Polonia, essa non potè opporne che 80,000. Tre volle fu mutato il generalissimo, ma l'uomo di genio mancò sempre. Una prima battaglia, a Grochow, fra 100,000 russi e 45,000 polacchi, durata tre giorni, com- battuta con estremo accanimento dalle due parti, fini colla ritirata dei polacchi. Questi avevano lasciato 5,000 morti sul campo, mentre i russi avevano avuto più di 10.000 fra morti e feriti. Un mese dopo, l'esercito polacco respinse i russi nella foresta di Wawer, ma mentre ai russi giungevano sempre nuovi rinforzi, i gene- rali polacchi non seppero neppure approfittare dei loro successi. Per colmo di sventura la plebaglia di Var- savia, sobillata da politicanti malvagi, si sfogò in scene sanguinarie contro i nobili; ciò che non poteva certamente giovare ad accrescere simpatie alla causa polacca in Europa. Ai primi di settembre 1' esercito russo, riu- nito sotto il comando del generale Paskewic, vincitore nella recente spedizione contro la Persia, s'avvicinò alle mura di Varsavia, per darvi l'ultima battaglia. Per passare la Vistola doveva il generale russo dividere il suo esercito in due. Solo gettan- dosi con forze compatte prima sull'uno, poi sull'altro, c'era pei polacchi possibilità di vit- toria. Invece, chiusisi nella capitale, dopo vigo- rosi assalti dei russi ed un bombardamento di 300 bocche da fuoco, Varsavia dovette capitolare. 60 Era il 7 settembre, anniversario della vittoria riportata nel 1G83 dai polacchi di Sobiewski sotto le mura di Vienna, che salvò l'Europa centrale dalla dominnzione turca. Crudele anniversario! Da quel giorno l' indipendenza della Polonia non sarà più che una memoria e una speranza; e i più valorosi dei suoi figli, sparsi pel mondo, andranno a combattere in tutti i campi in cui vedranno alzarsi un vessillo di libertà, chie- dendo invano all'Europa un po' di giustizia alla loro patria. E la Francia? Separata da mezza Europa, l'in- tervento di un esercito francese in Polonia era impossibile. Ma il governo di Luigi Filippo avrebbe potuto mandarvi in tempo esperti ge- nerali e sussidi in denaro e uomini capaci a dare i migliori consigli nei momenti difficili. Invece, non solo fece nulla di simile, ma fin dai primi momenti i soli consigli che seppe dare agli uomini dell' insurrezione fu di sottomet- tersi al buon volere dello czar. E quando il sacrificio fu consumato, il mi- nistro degli esteri, Sebastiani, l'annunciava alla Camera francese colla cinica frase divenuta storica: L'ordine regna in Varsavia! 61 Moti italiani La grande lontananza, e il trovarsi divisa da altri Stati, era stata la principale causa che aveva vietato alla Francia di correre in soccorso dei polacclii; l'Italia, cosi vicina alla Francia sarà aiutata nelle insurrezioni che, quasi con- temporaneamente a quella di Polonia, si prepa- ravano a Roma, nelle Romagne e nell' Emilia? È ciò che speravano i più ardenti patrioti dei ducati e degli Stati romani, ji quali anche prima delle giorate di luglio tenevano un'at- tiva corrispondenza coi democratici francesi. Dopo la rivoluzione del 30 le loro speranze si fecero più vive. I moti liberali del 1821 di Napoli e del Pie- monte, trionfanti, erano stati soffocati dalle armi austriache ; ora che il governo francese aveva dichiarato altamente e ripetutamente dalla tribuna (il 1 e il 6 dicembre) che non avrebbe tollerato che il non intervento fosse violato da altri - pronta a brandir le armi a difesa di amici, se violato, - quei patrioti si te- nevan sicuri dell'impresa a cui si accingevano. Non erano mancate in segreto promesse più positive. II generale Pepe, dietro sicuro affidamento di La Fayette, era andato in Corsica a preparare uomini ed armi per uno sbarco sul suolo na- poletano, conniventi le autorità francesi. Enrico Misley aveva corso la Lombardia e l'I- talia centrale, promettendo il sicuro appoggio del governo francese. A Modena aveva avuto rapporti con Ciro Menotti e col duca France- 62 SCO, a cui s'era fatla balenare la speranza della corona d'Italia. Ma ad un tratto, quando venne il momento dell'azione, i propositi del governo di Luigi Fi- lippo mutarono. Minacciando i despoti di appoggiare i popoli che insorgevano, egli aveva ottenuto ciò ctie a lui specialmente premeva: gl'imperi nordici, impauriti, riconobbero la nuova dinastia, a patto non soccorresse la rivoluzione fuori di Francia. Il patto fu accettato. Allora i preparativi armati del gen. Pepe in Corsica furono dispersi dalle autorità medesime che poco prima li avevano favoriti. La stessa sorte toccò ai fuorusciti che si erano raccolti a Lione, per muovere di là, a traverso la Savoia, a sollevare il Piemonte. A Modena il duca, informato del mutamento di Luigi Filippo, fa assaltare la casa dei con- giurati riuniti da Ciro Menotti, e li trae in pri- gione. E sull'istante al governatore di Reggio scrive: « Questa notte è scoppiata contro di « me una terribile congiura. I cospiratori sono « in mia mano. Mandatemi il boia! » Poi giun- tegli notizie dei moti scoppiati a Bologna e nella Romagna, si mette in salvo, traendo se- co a Mantova Ciro Menotti, che, consegnato all'Austria, e mandato poi al patibolo, sarà sti- molo e segnacolo agli italiani di futura reden- zione. In Roma, fallito il tentativo di impadronirsi di Castel Sant'Angelo, il movimento abortì. I più compromessi si salvarono colla fuga. Fra essi i due fratelli Luigi e Napoleone Bonaparle, figli della regina Ortensia, che, unitisi ai com- battenti delle Marche e di Romagna, poco stante insorte, si trovarono all'unico caldo combatti- 63 mento che ebbe luogo ad Otricoli fra liberali e papalini, finito colla rotta di questi. Fra i morti ci fu il giovane Napoleone Bonaparte, ma non si seppe mai se amica o nemica fu l'arma che lo uccise. Il fratello Luigi Napoleone divenne più tardi imperatore dei francesi. A Bologna, disarmate le truppe papaline, la rivoluzione fu del lutto incruenta. Cosi avvenne in Ancona, dove, senza colpo ferire, i colonnelli dei sollevati, Sercognani e Armandi, presero possesso della città. Come marea che si dilata, anche Parma e Piacenza si liberarono senza grandi sforzi del governo di Maria Luigia. In pochi giorni, dopo brevi lotte, quasi tutte incruente, l'Italia centrale, da Parma ad Ancona, trovossi libera di governi che non avevano alcuna radice nell'animo delle popolazioni. Disgraziatamente a cosi rapida fortuna seguì quasi altrettanto rapida la catastrofe. Il movimento quasi dovunque era avvenuto per opera della classe media, senza che la massa del popolo vi avesse partecipato. I capi del movimento, buoni, onesti, leali, credettero di non inimicarsi l'Europa dando prova di amore dell'ordine, reprimendo seve- ramente ogni principio di turbolenze. Fidente nel non intervento, invece di armarsi e di agire con risolutezza d'accordo cogli insorti dei vicini Stati, si chiuse ogni governo nella cerchia della rispettiva regione, sfogando il proprio ardore in proclami reboanti. Naturalmente l'Austria non se ne commosse, come non si lasciò arrestare dalle proteste che fi4 contro la minacciata violazione del non inter- vento fece a Vienna il ministro di Francia, mentre era ancora capo del governo il Laffitte, Con 15,000 uomini potè facilmente vincere le deboli resistenze dei liberali a Parma, a Modena e a Bologna. Qui il governo liberale, rispettoso fino allo scrupolo del non intervento, non aveva voluto ricevere che disarmati gli uomini che il gene- rale Zucchi, abbandonando Modena, aveva seco condotti. Soltanto sotto Rimini vi fu una certa resi- stenza. Anche là comandava il gen. Zucchi, e con due soli battaglioni - le altre milizie es- sendosi sbandate alle prime cannonate - com- battè tutto il giorno, e soltanto alla notte, dopo avere respinto due volte gli assalti austrìaci, ordinò la ritirata. L'ultimo atto della disgraziata impresa si svolse ad Ancona, dove i capi del movimento liberale, consegnata la città al governo pon- tificio, rappresentato dal legato card. Benve- nuti, già loro prigioniero, ed avuto da questi i passaporti per 1' estero, furono dall'Austria arrestati sulla nave che doveva condurli in salvo, e tradotti prigionieri a Venezia. Nel maggio di quel medesimo anno gli amba- sciatori di Francia, Inghilterra, Austria, Prussia e Russia consigliavano, in una nota collettiva, la Santa Sede a introdurre nel suo governo al- cune delle riforme clie la parte colta e mode- rata del paese reclamava; fra esse l'elezione popolare nella amministrazione comunale e provinciale, una giunta centrale per lo studio di ulteriori riforme, i laici ammessi a tutte le funzioni pubbliche, e un Consiglio di Stato formato coi più notevoli cittadini. 65 Ai consigli contenuti in quella nota e alle liete speranze che essa aveva fatto nascere nella popolazione, Gregorio XVI rispose con editti, che ribadivano il carattere teocratico del suo governo, e con accrescimento delle pubbliche gravezze, che misero di nuovo in subbuglio la popolazione di Romagna. A disar- mare le guardie civiche, che fino allora avevano mantenuto l'ordine nelle città, il governo pon- tifìcio aveva mandato nuove soldatesche for- mate dalla feccia della popolazione. Fra esse e le guardie civiche avvenne uno scontro nel ter- ritorio di Cesena, finito colla vittoria dei pa- palini, molto superiori di numero. x\llora que- sti entrati in Cesena la misero a saccheggio, e vi commisero nefandità orribili. A prevenire una nuova insurrezione nelle Romagne, che l'irritazione generale faceva pre- vedere, ri\ustria, che aveva ritirato in luglio le sue truppe dal territorio pontificio, lo in- vase di nuovo nel gennaio 1832. Era allora al governo di Francia Casimiro Perier, uomo di grande orgoglio, il quale, men- tre faceva nell'interno una politica di resistenza al liberalismo avanzato, voleva soddisfare il sentimento nazionale con una politica energica all'estero. Senza neppur prevenirne le altre potenze, mandata in tutta furia nelle acque d'Ancona una fiotta con truppe da sbarco, fece da esse occupare la città e il castello, issandovi il tri- colore francese. Questo atto di vigore era inspirato dal desi- derio di controbilanciare l' influenza austriaca in Italia e in pari tempo di intimidire il pon- tefice, obbligandolo a dar esecuzione a quelle riforme che nella nota collettiva di maggio (50 f^li erano stale consigliate. Gli sforzi falli a ([iiesto scopo dall' ambasciatore francese a Roma non avendo dato alcun frutto, i ncoguelfi italiani se ne prevalsero più tardi per mettere in mala vista la Francia, nella quale sempre vedevano la patria di Voltaire e la terra della rivoluzione. * » * Le avvenute sollevazioni e i governi effi- meri che n'erano sorli, non avevano avuto al- tro effetto che di rincrudire la reazione - la quale non ebbe più ritegno nel dar dovunqua la caccia alle idee e agli uomini liberali - e di mostrare nell'Austria la causa prima, visibile, della servitù italiana, e di questa il gendarme. Impediti di agire all'aperto, poiché anche in Piemonte fucilazioni e galere erano state pro- digate per lievi manifestazioni di libertà, i pa- trioti si diedero alle congiure. Fra le società segrete, sorte in quel tempo, una prevalse, La Giovane Italia, concepita dalla mente idealista e maturata dal gran cuore di Giuseppe Mazzini. Colla sua parola ardente, immaginosa, inspirala d'un profeta, col suo richiamo ad alte idealità e al sentimento pa- triotico, fece in breve tempo molti proseliti fra gli esuli e nella gioventù della Liguria, del Piemonte e dell'Italia Centrale. Suo scopo : riunire in un sol corpo di nazione l'Italia tutta ; perciò far guerra all'austriaco e a tutti gli altri governi che la tiranneggiavano ; fondare sulle distrutte dominazioni un'unica re- pubblica, la quale, banditrice d'una nuova re- ligione compendiata nel motto: Dio e popolo, sostituirebbe il papato nell'egemonia morale del mondo. Per raggiungere sì grande meta» unica forza: l'entusiasmo popolare. 6"; Ognun vede a mente fredda come i mezzi fossero sproporzionati allo scopo; come la fantasia vedesse tolte ad un tratto le immense difficoltà dell'impresa, e come la morale mede- sima, che il fondatore della Giovane Italia po- neva con ragione a base della politica, fosse oscurata dal deismo fatto dogma politico, dalla predicazione della lotta armata, anche nei mo- menti in cui non poteva dare che vittime, e dal far credere a virtù innate del popolo italiano che gli assegnavano il primato morale sugli altri popoli, invece di spingere a meritarlo, ad- ditando i difetti da cui importava correggersi. Non ostante l'evidente inattuabilità del dise- gno politico, sulle basi e nei modi da Mazzini insegnati, e i difetti della dottrina, il maz- zinianismo, come reagente contro la servitù delle anime e 1' assenza di patriotismo in molta parte degli italiani di quel tempo, fu la fonte a cui attinsero inspirazione e propositi non sol- tanto i giovani d'azione, ma molti uomini poli- tici, che ebbero una parte importante nella nostra rivoluzione, e qualcuno l'ebbe fino ai nostri giorni anche nel governo del nuovo Stato. E ciò spiega molti degli errori commessi dal quarantotto in poi nei momenti più importanti dell'italico risorgimento e nel governo della nazione, quando furono al potere i Cairoli, i Xicotera, i Crispi. di Mazzini già amicissimi o discepoli. Ma non si deve dimenticare che si deve al costante apostolato di Giuseppe Mazzini, se la maggioranza degli italiani colti si accorse un giorno di avere una patria da liberare dalla lunga servitù, e se la causa dell'unità d'Italia finì per attrarre le simpatie di tutta l'opinione liberale d'Europa. fiS Insurrezioni contro Luigi Filippo Realisti e Repubblicani. La fine infelice dei moti italiani e dell'insur- rezione polacca produsse nella democrazia fran- cese una profonda emozione. Dopo averne fatto argomento di vivaci pro- teste contro la politica del governo dalla tri- buna parlamentare, i deputati della sinistra ne fecero uno dei temi d'accusa contro il governo nel celebre memorandum eh' essi diressero ai loro elettori il 22 maggio 1832. « ...L'Italia (dicevano in quel manifesto) venne <^< abbandonata alla dominazione dell'Austria, e « si lasciò perire la Polonia, questa Polonia « che noi potevamo certamente soccorrere, e « ch'era nostro dovere soccorrere. « È falso che un linguaggio dignitoso e fermo «. avrebbe potuto cagionare in quest'occasione <^ la guerra. Sarebbe stato invece il mezzo più . Erano parole equivoche, che male rispondevano alle forti simpatie che i moti d' Italia avevano destato fin dal principio in tutta la parte liberale della Francia. Il ministero medesimo se ne accorse, e con- 136 senti che nella risposta della Camera dei Pari al discorso reale fosse inserito questo periodo : « Un'era nuova di civiltà e di libertà si apre « per gli Stati italiani. Noi secondiamo con « tutte le nostre simpatie e con tutte le nostre « speranze il magnanimo pontefice, che l'inau- « gura con altrettanta saggezza quanto corag- « gio, e i sovrani che seguono come lui una « via di riforme pacifiche ». Frasi poco diverse furono introdotte, sem- pre d' accordo col ministero, nell' indirizzo di risposta della Camera dei deputati. Ciò non bastava all'opposizione, la quale ac- cusò aspramente il ministero di avere colla sua condotta equivoca, sovente troppo remis- siva e umiliante verso l'Austria, incoraggiati più i principi alla resistenza, che le popola- zioni italiane nei loro sforzi pel conseguimento della libertà. Infatti nelle istruzioni mandate all'ambascia- tore francese a Firenze, Guizot aveva dichia- ralo che il governo del re « si crederebbe col- « pevole se spingesse l'Italia sulla via in cui le « fazioni vorrebbero spingerla ». Le fazioni a Roma, come a Firenze, non chiedevano nelle for- me civili se non un po' di quella libertà, per avere la quale la l'rancia aveva fatto le sue rivoluzioni, e nel cui nome Guizot pretendeva di governare. Anche la condotta del governo francese verso la Svizzera, per la questione del Sonder binici, dove aveva appoggiato il partito ultramon- tano — senza poter impedire la di lui disfatta — fu dalla opposizione vivamente stimmatiz- zata ; e, poiché accusava con documenti alla mano, dovette produrre sulla opinione pubblica una impressione di disgusto verso il governo. Ma il ministero, forte di una maggioranza 137 della Camera, che gli dava nelle questioni più gravi una cinquantina di voti sicuri, credette d'imporsi alla opinione pubblica con un atto di energia. Dopo che si erano dati, senza divieto di al- cuna legge, sessanta banchetti elettorali, il mi- nistro dell'interno (Duchàteli, di cui la storia ricorda il nome soltanto a suo disdoro, vietò a un tratto il banchetto sessantunesimo, pren- dendo a pretesto una legge del 1790, di cui più nessuno ricordava l'esistenza. Il banchetto doveva aver luogo il 22 feb- braio nel XII circondario di Parigi, e tutti i deputali e i pari di Francia (senatori) di op- posizione vi erano invitati. Contro il decreto del ministero, che lo vie- tava, la opposizione dinastica protestò fiera- mente, e nominò una commissione per met- tersi di accordo col Comitato ordinatore del banchetto. Il ministero, per non avere la responsabilità d'un conflitto, aveva finito per decidere, non più d'impedire il banchetto, ma di prendere atto della riunione, a mezzo di un commissario, per deferire poi gli autori della violazione della legge all'autorità giudiziaria. Ma il mattino del 21, visto nel National e nella Réforme il programma del Comitato ordi- natore del banchetto, che dava a questo un carat- tere di solenne protesta contro il Ministero per l'intangibilità del diritto di runione, e invitava ad assistervi quasi tutta Parigi - i pari, i de- putati, la Guardia nazionale, la gioventù delle scuole- stabiliva il corteo, il centro di riunione (piazza della Maddalena) e l'itinerario, quasi as- sumendo le funzioni e il linguaggio di una autorità politica, il Ministero ne fu irritatis- simo, e vietò recisamente il banchetto. 138 Guizot al deputato che gli si era presentato, per assicurarlo delle « intenzioni pacifiche » degli ordinatori del banchetto, aveva risposto: « La manifestazione non si farà; si erige un go- « verno di fronte al nostro; ciò non può essere ». 11 governo, sicuro dell'esercito, confidava nella forza. Allora i deputati di opposizione, preoccupati della responsabilità di un conflitto, temendone le conseguenze, pubblicano un manifesto in cui dichiarano di «astenersi» dalla manifesta- zione e « impegnano tutti i buoni cittadini a se- guirne l'esempio >. Letta questa dichiarazione nel momento stesso in cui i deputati, che l'avevano firmata, presen- tavano alla Camera una mozione per la messa del ministero in stato di accusa, il re disse: « Sapevo bene che mostrando della fermezza « li avrei fatti ritirare ! ». E al ministro Duchàtel aveva già detto : « Gre- ad astenersi da un temerario trasporto. « Non date (diceva) al potere 1' occasione cer- cata d'un conflitto sanguinoso ». Nessuno dunque di quelli che pel loro ufficio avevano una responsabilità davanti al popolo voleva saperne di sollevazione. Ma lo spirito rivoluzionario era sempre vivo nelle società dei Droits de Vhomme, delle 'Sai- 139 sona, delle Familles ed altre, quasi tutte masso- niche, che tenevano segrete le loro adunanze, e avevano innumerevoli affigliati nella popola- zione dei sobborghi. Una gran parte delle migliaia di esuli italiani, polacchi, tedeschi e spagnuoli, ch'erano allora in Parigi, era un'altra forza pronta ad asso- ciarsi ad un movimento rivoluzionario. Il 22 febbraio era un martedì, ma le botteghe dei boulevards rimasero chiuse come nei dì festivi, in previsione della dimostrazione che non tutti forse sapevano essere stata dal go- verno vietata, e dal Comitato contromandata. Informati o no, delle ultime decisioni, gli stu- denti, avanguardia di tutte le rivoluzioni, si ri- unirono di buon' ora sulla piazza del Pantheon, e cantando la Marsigliese si diressero verso la piazza della Maddalena. Là non impediti dalla polizia (guardie municipali), rimasta inerte, per- chè non aveva avuto fino a quel momento il promessole appoggio della truppa di linea, gli studenti, ingrossati da numerosi gruppi di ope. rai, si divisero recandosi parte al palazzo Bor- bone, sede della Camera dei deputati, e parte verso il palazzo del ministero degli esteri, di- mora di Guizot. Superata la cancellata di ferro del palazzo Borbone, che trovarono custodito da guardie nazionali, penetrarono nella sala dei Passi per- duti. Non v'erano che pochi deputati, e alle prime osservazioni loro fatte gli studenti si ritirarono; ma, ritirandosi, uno dei più risoluti disse ad un usciere della Camera: « State tranquillo; « noi ritorneremo, e voi avrete un governo del « colore del vostro gilet». Il giletera di panno rosso. 140 Pare che quel giovane vedesse più in su e più in là di tutti gli altri, perchè in quel giorno tutti i gridi lanciati dai tumultuanti si limita- rono a degli Abbasso Giiizot! Abbasso i minislri! e a degli Evviva la Riforma! Davanti al ministero degli esteri, dove risie- deva Guizot, ci furono un formidabile agglome- ramento e il tentativo di invaderlo, abbatten- done la porta, ma accorsero in tempo i rinforzi chiamati dalle vicine caserme. Altri aggruppamenti ci furono davanti ai pa- lazzi dei ministri della marina e delle finanze, e tentativi di barricate fatti da ragazzi del po- polo, subito dopo distrutte, e qua e là piccole zuffe contro i soldati e le guardie municipali, contro i quali rari combattenti non avevano altre armi che i ciottoli delle strade. Nulla insomma di veramente grave nella gior- nata, tranne che poche delle guardie nazionali risposero alla chiamata loro fatta sul tardi, e tranne l'assenza di qualsiasi segno degli amici del governo e della monarchia di cooperare in minimo modo pur alla loro difesa. I caporioni delle anteriori sommosse non si erano veduti durante la giornata in nessun punto, insieme ai tumultuanti. Obbedienti alla raccomandazione della Réforme, di non dare pretesti al ministero di una repressione san- guinosa, s'erano tenuti in disparte insieme ai più risoluti di parte repubblicana. Ma, venuta la notte, nelle adunanze tenute fra loro e negli uffici della Réforme, visto che una parte di popolo s'era messa senza di essi nella lotta, decisero di prendervi parte, se fosse continuata con qualche probabilità di successo. Da parte sua il governo, fidente nei sessanta mila uomini, di cui fra Parigi e Saint Cloud 141 poteva disporre, e nella Guardia nazionale e nel piano strategico da molti anni studiato dal ministero della guerra, si teneva sicuro di vin- cere, non appena la sommossa avesse preso un carattere minaccioso. Era una grande illusione. Un'insurrezione contro un governo impopo- lare si può prevenire o vincere senza difficoltà nei primi momenti, togliendo prima di tutto, quando é possibile, la causa dell'impopolarità, che allora era nel ministero Guizot, e col met- tere in moto gli amici, che sieno persone non in- vise al popolo, perchè portino dovunque parole di conciliazione e di pace. Nello stesso tempo, se vi sono ancora segni di resistenza nel po- polo, impedire che i gruppi degli insorti si riu- niscano facendo percorrere in lungo e in largo da forti drappelli di cavalleria le vie dove po- trebbero riunirsi, e far occupare da altre nu- merose forze i punti strategici della città. Agendo risolutamente in questo senso, con due terzi delle forze di cui il governo di Luigi Filippo poteva disporre in Parigi, la rivoluzione del 24 febbrajo poteva essere scongiurata. Dando tempo invece alla insurrezione di or- ganizzarsi e di estendersi, non la si sarebbe po- tuto vincere che a prezzo di molte stragi, e un governo uscito dalla rivoluzione che vi ricorre è un governo perduto. Al mattino del 23 i parigini trovarono occu- pate militarmente le piazze intorno alle Tuile- ries, i Campi Elisi, dove erano riunite forti ri- serve, e le comunicazioni principali dal centro alla periferia, ma nessun avviso che annun- ciasse il ritiro del ministero. I nemici della monarchia ne furono lietis- simi; il popolo si senti spinto, più del giorno 142 innanzi, alla lotta, non ostante tutto l'apparalo di forze spiegato dal governo. La lotta cominciò il mattino nei quartieri po- polari dell'est, che furono presto coperti di bar- ricate. Come altre volte era accaduto, gli operai si armarono coi fucili presi nei corpi di guar- dia e nei magazzini della Guardia nazionale. Altre barricate venivano mano mano erette nelle vie più frequentate del centro. Vi furono in molti luoghi scambi di fucilate fra gli insorti e la truppa, senza gravi danni da una parte e dall'altra. Ma ciò che doveva far impensierire il go- verno, fu il contegno della Guardia nazionale. Come nel giorno innanzi, rispose in scarso numero all'appello fattole a rullo di tamburo. Chiamata a difendere l'ordine, si frappose in molli luoghi fra le schiere dei popolani e la truppa pronta a caricarle. — « Che cosa vogliamo noi? Che cosa vuole « la poplazione? Niente altro che la riforma e « la caduta d'un ministero impopolare. » Cosi parlavano ufficiali e militi della Guardia nazionale ai comandanti della truppa di linea, incaricati di sciogliere gli attruppamenti. Nel pomeriggio il re finalmente si decise a congedare il ministero Guizot, e a incaricare della formazione di un nuovo ministero il conte Mole, che aveva fama di liberale. Benché arrivato un po' tardi, il provvedi- mento poteva essere in quel momento la sal- vezza della monarchia. Alla Camera l'annuncio fu infatti accolto da molti applausi dei deputati di opposizione. Portata fino alla estremità di Parigi da Guar- die nazionali a cavallo la notizia che il re, mu- tando il ministero, consentiva alla riforma elet- 143 torale, destò dovunque una grande soddisfa- zione. Il popolo aveva vinto. La lotta cessò dappertutto. Alla sera le finestre e i balconi di molte case private furono illuminate in segno di esultanza. Una folla d'uomini, donne e fanciulli inon- dava le vie scintillanti di luce, e sui visi di tutti leggevasi un'aria di festa. Se nella lotta si risvegliano gli istinti di combattività, e i combattenti ne sono esaltati, non è men vero che la fine d'una lotta, spe- cialmente civile, riempie l'animo d'un popolo civile di ineffabile compiacimento. Anche una parte degli uomini del popolo che avevano combattuto alle barricate volle asso- ciarsi alla pubblica esultanza, festeggiando la propria vittoria. Una lunga schiera di combattenti, alcuni dei quali portavano torcie, dopo aver fatto un giro intorno alla colonna di luglio, in segno del- l'omaggio che i vincitori del 1848 rendevano ai caduti del 1830, continuò la sua via sui boule- vards. Arrivata in via Lepelletier, davanti agli uf- fici del National, si arrestò. Pareva aspettata. Subito dopo comparve ad una delle finestre il direttore del giornale repubblicano, Marrast, il quale coll'accento vibrato del tribuno, si rallegrò coi combattenti della vittoria riportata; ma aggiunse: « Il popolo ha diritto a delle garanzie e ad « una riparazione. Deve esigere la messa in « accusa del ministero, il licenziamento della « Guardia municipale (guardia di polizia) e le « riforme elettorale e parlamentare ». E conchiuse colle seguenti parole, le quali 144 in quel momento indicavano la via che un governo democratico avrebbe seguilo nella po- litica estera : « Finalmente non dimentichiamo che questa « non è vittoria solamente per la Francia, ma « lo è anche per la Svizzera » allora minac- ciata dall'Austria e dalla Prussia « e per gli * italiani ». Lasciato il National,\a colonna, come valanga che nel suo corso sempre s'ingrossa, si diresse verso la piazza Vendorae. Arrivata sul boulevard dei Cappuccini, davanti al ministero degli esteri, dove Guizot risiedeva ancora, troyò la via tutta intercettata da sol- dati del 14 reggimento di linea. Far retrocedere quella fitta colonna, che pa- reva una muraglia, non era facile. Perciò il luogotenente della Guardia nazionale, di nome Schoumacher. che la guidava, si rivolse al co- lonello Courant, che là comandava, con queste parole : — « Colonnello, apriteci i ranghi ; le nostre « intenzioni sono pacifiche. Voi lo vedete : ri- « tornare indietro a noi è impossibile ». Il colonnello rispose secco: « Non è la mia « consegna. - Di qui non passerete ». Intanto la folla ch'era indietro, volendo an- dare innanzi, spingeva, senza saperlo, le prime file della colonna contro i soldati. Allora il colonnello ordinò ai suoi soldati d'incrociare le baionette. I soldati obbediscono ; ma da uno dei fucili esce, forse a caso, uno sparo. Gli altri soldati, credendo che l'ordine fosse di far fuoco, fanno una scarica, alla quale ne succede subito una seconda. All'improvvisa aggressione una parte della 145 folla fugge, mandando grida di stupore, di rabbia, d'indignazione, mentre sullo spazio ri- masto sgombro davanti ai soldati, si presenta una scena orribile. Le torcie cadute di mano ai fuggenti, o an- cora strette in pugno ai caduti, illuminano con luce sinistra i morti e i morenti in mezzo a rivi di sangue. Dei colpi sparati pochi andarono a vuoto; 52 furono i colpiti - secondo altri 63 ; - 35 gli gli uccisi ; tra questi un sottotenente della Guardia nazionale, di nome Blot, che venne trasportato in una bottega vicina. Nel dar mano a questo trasporto, il capitano della coiii- pagnia che aveva fatto fuoco, esclamava : « Quale « sventura I Una giornata così bella ! Fu un nia- « linteso. un orribile malinteso! » I soldati, pallidi di spavento , guardavano saiarriti l'opera propria. II colonnello Courant, costernato più di lutti, ai cittadini che gli esprimevano la loro indi- gnazione, rispose : « Ne sono desolato quanto voi. Fu una fata- « lità I ». Su un carro, ch'era passato poco dopo la catastrofe sul boulevard dei Cappuccini, furono deposti da alcuni insorti i 37 cadaveri. Le torcie accese ai quattro angoli illumina- vano le faccie livide (iei morti, le braccia pen- denti fuori del carro ; fra quei morti c'era anche qualche donna. Il carro seguito da una folla silenziosa, fu fatto arrestare dajjprima sotto le lìntslre del National, dove Garnier-Pagès pronuiìciò parole di fuoco contro il governo; indi nella via Mont- martre, dove erano gli uffici della Rcforme, e là nuovi gridi e nuovi proposili di guerra. 10 146 Tutta la notte quel funebre carro fu condotto in giro per la gran città, come fosse guidato da una terribile Nemesi. Dappertutto quello spettacolo destava, insieme ad una profonda pietà, un'immensa indigna- zione. Da tutte le parti, ma specialmente nei quar- tieri popolari, uscivano parole d'odio e di ven- detta. Quei morti, prima di essere sepolti, scava- rono la fossa alla monarchia. Dovunque, anche dove il carro degli uccisi non fu visto, la notizia dell'eccidio del boule- vard dei Cappuccini si diffuse come il baleno, e dovunque destò i medesimi sentimenti d'indi- gnazione e di vendetta. Nessuno parlò più di ministeri ; era la mo- narchia, erano il re e la Corte che non si vo- levano più. A cominciare dalla mezzanotte le campane di tutte le chiese suonarono a stormo. Nella notte medesima la lotta fu ripresa con irresistibile ardore. Furono assaliti e disarmati parecchi posti militari; fu presa la caserma del sobborgo S. Martin, dove gli insorti trova- rono migliaia di fucili. Quella che nei due giorni innanzi non era stata che una sommossa, divenne una rivolu- zione. La notizia delle fucilate del boulevard dei Cappuccini aveva fatto in Parigi l'elletto d'una scintilla caduta in una polveriera. Dalla mezzanotte alle 6 del mattino il popolo costrusse 1512 barricate - alcune delle quali alte fin dodici piedi, munite di cannoni, pare- vano veri ridotti. - Furono abbattuti 4013 al- beri, spostate 1,277,000 pietre del selciato, in- 147 vasi 54 corpi di guardia, 41 uffici del dazio, demolite e bruciate 43 garette. Ormai la vittoria del popolo non era più dubbia, e di questo risultato la monarchia era debitrice al militarismo. Quel militarismo, intendiamoci, che fa del soldato un automa, del comandante uno schiavo della consegna; - il militarismo che impone un'obbedienza cieca, che annienta colla ferrea disciplina la riflessione, lo spirito d'esame, la coscienza individuale - ecco il vero colpevole. Quando si fa dell'esercito un'istituzione an- tagonista della società civile, e del soldato una macchina, che non ode e non sente altro che la voce del comando, e questo può in mille casi essere frainteso, fatalità o sciagure come quella accaduta sul boulevard dei Cappuccini possono ripetersi in molte altre analoghe cir- costanze. Unico rimedio sarebbe di porre la forza ar- mata, chiamata a sedare pubbliche turbolenze, sotto l'autorità di seri, avveduti, rispettati e rispettabili funzionari civili. Un prefetto, un magistrato, un commissario di polizia , che si fossero trovati nel posto del colonnello Courant, alle istanze del luogo- tenente Schoumacher, non avrebbero risposto: questa non è la mia consegna ; non avrebbero veduto nessun inconveniente nel lasciar libero il passaggio, in quell'ora di esultanza, alla co- lonna di cittadini che festeggiava la civile vit- toria. Ma accade talvolta che contro una legge cosi contraria ai migliori istinti dell'uomo, si ribel- lino in momenti supremi i più leali e valorosi soldati. È ciò che avvenne a Parigi l'ultimo giorno della lotta. Così Luigi Filippo il quale, 148 come tutti i regnanti, aveva riposto nell'eser- cito la sua fiducia e le sue maggiori speranze, fu, egli e la sua dinastia, vittima in due modi dell'oggetto del suo culto; vittima dapprima (iella obbedienza alla consegna, che è dogma in- discutibile in tutti gli eserciti stanziali, poi, come vedremo, dell'infrazione a questo dogma antiquato ed assurdo. Esempio istruttivo per tutti, ma di cui pro- babilmente ben pochi anche in futuro avranno la saggezza di approfittare. IL 24 FEBBRAIO. Durante la notte, come s'è veduto, il po- polo parigino non era rimasto inerte. Nel mattino gli insorti erano in possesso di una grande quantità di cartuccie, né manca- vano di fucili. Quasi tutta Parigi era irta di barricate. Sulle piazze, dove la cavalleria avrebbe po- tuto spiegarsi, erano stati sparsi rottami di bot- tiglie. Manifesti firmati dai più noti repubblicani incuoravano alla lotta. Il pensiero che dominava il popolo era espresso in un manifesto della Réforme, così concepito: « Luigi Filippo ci fa massacrare come Carlo X: « ch'ei vada a raggiungere Carlo X ». Il re intanto era lontanissimo dal pensnre che l'ora della fine del suo regno era suonata- Ad un'ora del mattino aveva chiamato Thiers per dargli l'incarico, rifiutato da Mole, di for- mare il nuovo ministero. Consentì che vi en' trasse Udilon Barrot, ma quando Thiers ac- 149 cenno alla convenienza di sciogliere la Camera, Luigi Filippo rispose: «Mai! mai!» Il re aveva già nominato il maresciallo Bu- geaud comandante in capo delle truppe di linea della divisione di Parigi e comandante superiore delle Guardie nazionali del diparti- mento della Senna. I due decreti portanti quelle due nomine, vennero pubblicati nel Moniteiir uscito in quel mattino. Furono gli ultimi; recavano la solita formola, che pel suo contrasto col carattere del momento, merita di essere riprodotto : « Luigi Filippo, re dei Francesi, a tutti i pre- « senti e futuri, salute. « Abbiamo ordinato e ordiniamo ciò che « segue.... ». II re aveva nel maresciallo Bugeaud una fi- ducia illimitata. Vincitore in Africa nelle ultime campagne contro Ab-del-Kader ; fortunato contro tutte le sommosse avvenute in Parigi dopo il 1832, egli aveva fama di essere il miglior generale del suo tempo. Ma pei modi spietati da lui usati nel repri- mere i moti precedenti, il suo nome in quel momento faceva l'effetto d'una sfida lanciata al popolo combattente. Se il re aveva molta fede in Bugeaud, questi l'aveva anche più grande in sé stesso. Al re, che gli aveva domandato se poteva ri- spondere del successo, aveva risposto promet- tendolo, ma aggiungendo: «Vi saranno venli- timila uccisi ». Al duca di Nemours, figlio del re, dopo una ispezione alle truppe, disse: «Io rispondo del « risultato, purché mi si lasci fare. Bisognerà « che si versi molto sangue, perché io comin- 150 « ciò col cannone; ma state tranquillo, doma/il « sera l'autorità del re e della legge sarà rista- « bilita ». Appena informato che del nuovo ministero sarebbe slato capo il Thiers,Bugeaud gli scrisse: « È gran tempo che io aveva preveduto che « io e voi saremmo stati chiamati a salvare la « monarchia. II mio partito è preso; io brucio 1 « mìei vascelli.... Quando noi avremo vinto la « rivolta, e noi la vinceremo, io entrerò vo- « lentieri nel vostro ministero,... ». Coi sentimenti che l'animavano, il maresciallo Bugeaud pensò subito ad un'energica offensiva. Posto il suo quartier generale sulla piazza del Carrousel, vicino alle Tuileries, formò quattro colonne d'attacco. La prima, forte di 3,500 uomini, comandata dal generale Sebastiani, con uno squadrone di corazzieri e due cannoni, doveva percorrere le vie che conducono all'Hotel de Ville, sede della Prefettura, e stabilirsi fortemente su quella piazza. La seconda colonna, non meno forte, sotto gli ordini del generale Bedeau, che aveva ac- quistato nome di buon soldato nelle campagne d' Africa, doveva, seguendo la via dei Boule- vards, portarsi alla Bastiglia. La terza colonna, avente alla testa il generale Tallandier, doveva appoggiare, secondo le cir- costanze, la prima o la seconda, per concen- trarsi poi, come la prima, all'/fó/e/ de Ville. La quarta colonna, doveva portarsi al Pan- théon, a rinforzo della truppa del generale Re- nould, là accampato. La cavalleria era concentrata sulla piazza della Concordia. Una forte riserva di truppe di linea, con al- 151 cuai battaglioni della Guardia nazionale, era a disposizione del maresciallo sulla piazza del Carrousel. L'ordine dato ai comandanti delle quattro colonne era di abbattere a colpi di cannone le barricate che avrebbero trovato sul loro pas- saggio , disperdere le masse degli insorti e concentrarsi nei punti loro assegnati. Ma era un ordine più facile a darsi, che ad essere eseguito. La prima colonna, partita alle 5 del mattino dalla piazza del Carrousel, ricevuta in molti luoghi da fucilate, non arrivò che alle 7 davanti aìVHótel de Ville, stanca e scoraggiata. Le barricate ch'essa aveva atterrato sul suo passaggio, i soldati le avevano vedute subito rialzate dietro di loro. La seconda colonna si fece precedere nella sua marcia lungo il Boulevard da ufficiali dello Stato maggiore della Guardia nazionale. Essi avevano l'incarico di annunciare la formazione del nuovo ministero. Ma quella notizia è accolta dovunque con significante indifferenza. In vicinanza del teatro Ginnasio trovano una barricata, difesa da uomini risoluti. La colonna si avanza per assalirla; in quel momento gruppi di Guardie nazionali si por- tano davanti alle prime file dei soldati, gri- dando che non lascieranno massacrare il po- polo come sul boulevard dei Cappuccini. Il ge- nerale Bedeau risponde che egli ha la consegna di ristabilir l'ordine, ma il coraggio di ordinare una strage gli manca; consente perciò ad una sospensione delle ostilità, e manda una staf- fetta a prevenirne il maresciallo. Erano le otto ore. 152 Dal culto suo il generale Tallandier, che doveva appoggiare la colonna del generale Bedeau, fu arrestato a mezza via da altre Guar- die nazionali, che, associatesi agli insortì, per- suasero ({uel generale a ripiegare verso VHólel de Ville. Fino alle nove del mattino il generale Bedeau colle sue colonne d'attacco non aveva ottenuto altro effetto che di far vedere ai soldati che la insurrezione non era già 1' opera di pochi rivoltosi, ma di tutta la popolazione borghese, di cui la Guardia nazionale era diretta ema- nazione. Ben altri risultati aveva l' offensiva dalla parte degli insorti. Nei quartieri popolari, tutti gli scontri avve- nuti colle truppe erano stati favorevoli agli insorti. Verso le ore nove gli allievi della Scuola po- litecnica, fedeli alle loro tradizioni, usciti in massa dall'Istituto, si presentarono a parecchi uffici municipali per offrire la loro opera ai combattenti. Ma allora a molti in diverse parti della città, senza essersi dato l'un l'altro la parola, venne il pensiero che, se bello era il vincere, più bello sarebbe stato vincere senz'altro spargimento di sangue. Ufficiali e soldati non erano tutti figli del popolo? Era giusto, era umano che si ucci- dessero fra loro? L'esercito non appartiene alla nazione per la difesa dei suoi diritti? Dal momento che il governo uscendo dalla Co- stituzione, o violandone lo spirito, si era messo in lotta col popolo della capitale, non era do- vere dell'esercito di schierarsi dalla parte del popolo, o, come un minor male, astenersi dal conflitto? 153 Animati da questo pensiero, alcuni generosi si presentarono come parlamentari ai coman- danli delle truppe acquartierate nelle caserme San Vittore e di via Tournon, e sostennero così eloquentemente le ragioni del popolo com- battente, che le due caserme furono senza com- battimento consegnate al popolo, col quale i soldati furono ben lieti di fraternizzare. Rotto r incantesimo che li teneva legati al comando dei superiori, anche i comandanti di altre tre caserme si arresero. Fra i generosi, che ebbero una bella parte in queste vittorie incruente, vi fu un giovane biondo, che somigliava al Nazzareno. Egli s'era gettato nella mischia senz'armi colla fede d'un apostolo, affrontando i maggiori pericoli dove credeva i suoi consigli potessero giovare. Era Giuseppe Sirtori, clie doveva poi nelle guerre dell'indipendenza e unità d' Italia rendere glo- rioso il suo nome per intrepidezza di soldato e valentia di generale. Come antico prete, è però bello che la sua prima azione in una lotta armata, sia stata diretta a disarmare la violenza. La non resistenza dei soldati non si arrestò alle caserme. Sulla piazza della Bastiglia una compagnia di linea, invece di far fuoco contro una schiera di insorti, alzò in alto il calcio dei fucili, gri- dando : Viva la Guardia nazionale! Il generale, che là comandava, abbandonò subito quella piazza. Verso le undici, la colonna comandata dal generale Bedeau dal Boulevard era diretta verso la piazza della Concordia. Seguiva la stessa via una lunga schiera d'insorti, i quali senza fatica si mischiano fra le fila dei soldati. Questi li accolgono fraternamente, continuando la stessa via, gli uni gli altri abbracciati. 154 Quasi nella medesima ora, una batteria di cannoni, coi suoi cassoni, percorre i Boule- vards diretta alla piazza della Maddalena. E preceduta da un battaglione di fanteria, e se- guita da squadroni di cavalleria. Arrivato que- sto distaccamento sul Boulevard degli Italiani, una quarantina d'insorti armati di fucili, fra cui alcuni giovanetti, arresta il generale che lo guidava, e questi, accortosi che i soldati non erano più disposti a combattere, fa distac- care i cavalli, che più gli premevano, e abban- dona cannoni e munizioni agli insorti. Intanto l'insurrezione, guadagnando terreno dappertutto, veniva restringendo sempre più il suo cerchio verso il palazzo delle Tuileries. Mentre le truppe accampate sulle piazze vi- cine alle Tuileries sentivano la marea popolare avanzarsi, il re e la famiglia reale facevano colazione a tutto loro agio, senza nessun'idea dell'estrema sorte che loro pendeva sul capo. Avvertito ad un tratto da Remusat e Duver- gier de Hauranne della gravità del momento, il re vestì in fretta il suo uniforme di gene- rale e montò a cavallo. Seguito dai Duchi di Nemours e Montpensier, e da un gruppo di generali, passò lentamente in rivista le truppe e le Guardie nazionali, ch'erano schierate nel cortile delle Tuileries e sulla piazza del Car- rousel. Una legione della Guardia nazionale lo ac- colse coi gridi Viva il re! - Viva la Riforma! Dalle file di un' altra legione si gridò : Viva la Riforma! Abbasso i ministri! - Il re che si avanzava passo passo, rispose: « Amici miei! « la Riforma l'avete! I ministri sono cam- « biati ». Ma non potè essere inteso; sordi mormorii 155 e grida di Abbasso il sistema! Abbasso Guizoi! coprirono la sua voce. In pari tempo gruppi di cittadini frammi- scliiati alle Guardie nazionali gli rivolsero parole di cupa minaccia. Luigi Filippo rientrò nel palazzo costernato, livido in viso. A Thiers. che pel primo mosse a incontrarlo, il re disse : « Tutto è perduto! ». In quel momento non gli mancarono i cou- sigli di resistenza. Lasciando al maresciallo Bu- geaud, che glieli dava, piena libertà d'azione, poteva vincere. Poteva vincere mettendo Parigi a ferro e a fuoco, e coprendola di cadaveri. La monarchia salvata a tale prezzo, sarebbe stata rovesciata poco dopo da una sollevazione materiale e morale di tutta la Francia. Luigi Filippo respinse quel consiglio, dicendo a Bugeaud : « Non voglio che il sangue scorra € più a lungo per cagion mia ». Questa risoluzione onora la sua memoria, ed è una delle ragioni per cui la causa degli Orleans ha tuttora in Francia molti illusi, ma rispettabili partigiani. Poco dopo Luigi Filippo scrisse con pugno fermo l'atto di abdicazione in favore del fan- ciullo, suo nipote, il Conte di Parigi. La designazione fu vana, perchè il popolo parigino volle la repubblica come coronamento della sua vittoria. Al generale Lamoriciére, che portò alle bar- ricate quella notizia, Stefano Arago rispose che il popolo era padrone di Parigi, e non voleva più uè re, né principi. Né migliore risultato ottennero il maresciallo Gerard e gli altri, che annunciarono al popolo l'atto di abdicazione. 156 Mentre, come abbiam ricordato, gli sforzi di molti erano stati diretti in quel mattino a vin- cere senza spargimento di sangue, duole dover dire che l'ultimo atto dell'insurrezione, quando la monarchia aveva già capitolato, fu un atto di inutile violenza. La caserma del Chateau d' Eau, sulla piazza del Palazzo Reale, poteva, verso mezzogiorno, essere presa senza colpo ferire. Invece uno stuolo d'insorti preferì prenderla d'assalto. Le Guardie municipali e i soldati dì linea veden- dosi assaliti si difesero. Vinti, molti furono uccisi, dopo che ogni loro resistenza era cessata. Durava ancora il combattimento intorno al Chateau d'Eau , quando Luigi Filippo usciva per l'ultima volta dalle Tuileries dando braccio alla virtuosa, vecchia consorte, seguito dalla giovane duchessa di Nemours, conducente a mano i suoi figli, e da pochi famigliari. Le carrozze di Corte essendo state poco prima abbruciate, quei reali fuggenti dovettero ser- virsi di due vetture da nolo ad un cavallo. Nel salirvi, partendo per un esilio da cui non doveva più ritornare, Luigi Filippo mormorò: Come Carlo X! La rivoluzione, cacciando Carlo X, aveva dato a lui la corona; ora un'altra rivoluzione glie la toglieva. Aveva regnato diciotto anni, superando molte volte con senno difficoltà gravissime ; e cadeva per una questione che un altro principe me- diocrissimo avrebbe compreso e risolto in 157 tempo, con suo grande vantaggio. Cadeva per molte ragioni, ma sovratutto perchè gli era sempre mancato, né l'aveva mai cercato, il con- tatto diretto col popolo. Gli uccisi dell'insurrezione parigina di feb- braio furono 1400, tra cittadini e soldati. Verrà giorno in cui, arrivati i popoli e i go- verni all'età della ragione, le rivoluzioni, se ve ne saranno ancora, non daranno più morte ad alcuno. 158 Il Governo provvisorio della Repubblica Francese L'esultanza della vittoria del 24 febbraio fu così grande in Parigi, che ne subirono il fa- scino anche molti di coloro che alla lotta non avevano partecipato. Ne diede un saggio il 25 febbraio il vecchio organo della causa realista, la Gazette de France, colle seguenti parole: « Giammai rivoluzione alcuna camminò più » presto di quella a cui abbiamo assistito... Lo « scioglimento si compì in un'ora ". E con- chiudeva : " Il popolo francese è un popolo di eroi ; è « gran tempo che il mondo lo sa. Questo po- " polo di eroi sarà presto riconosciuto come " un popolo di saggi «. Cosi fosse stato; ma né allora, né più tardi i fatti confermarono il magnifico pronostico. Come mandatario della rivoluzione, nel po- meriggio medesimo del 24 febbraio fu dai de- putati e dai combattenti nominato il governo provvisorio cogli uomini più eminenti o più popolari in quel momento che avevano militato nei partiti di opposizione. Sebbene tutti sapessero che fino alla vigilia il partito repubblicano non era in Francia che una piccola minoranza, formala da vecchi co- spiratori, da idealisti e da studenti delle grandi città, il primo atto del governo provvisorio fu la proclamazione della Repubblica. 159 La rivoluzione del 1848 riannodava cosi la nuova Francia alla Repubblica del 1792, la quale, senza il Terrore, probabilissimamente non avrebbe avute interruzione. Proclamandola, salvo la ratifica del popolo a mezzo dei suoi eletti, gli uomini del go- verno provvisorio non agivano inconsiderata- mente. È tale il fascino che il nome di repubblica esercita sulle masse, laddove non esiste un po- tere interessato a screditarla; è così istintiva nei popoli latini l'idea che la repubblica è la espressione logica, naturale, della sovranità na- zionale, e pare cosi ovvio che nel suo seno trovino armonia e difesa tutti i legittimi inte- ressi, che nessuna seria protesta sorse in tutta la Francia contro la proclamazione fattane dal governo provvisorio, accolta invece con entu- siasmo in tutte le principali città. Anche due mesi dopo, all'indomani delle elezioni, molti fidi servitori delle due abbattute monarchie, stati eletti deputati, andarono all'assemblea con disposizioni favorevoli alla durata della repub- blica. Se questa si trovò fino dai primi momenti circondata da pericoli d'ogni natura; se per liberarsi dalle difficoltà più vicine ne creò di nuove e più gravi; se, dopo aver fatto ai pro- letari le più larghe promesse, fu costretta a domarne la rivolta con una terribile repres- sione, sicché divenne odiosa a molU di coloro che più avevano concorso a fondarla, la colpa fu più degli impazienti o inesperti che dei nemici, e forse più delle cose che degli uomini. 11 peccato d'origine del governo provvisorio, che fu poi causa della sua debolezza e di tutti gli errori da lui commessi, fu la sua compo- 160 sizione, ch'era un'amalgama di progressisti ri- masti monarchici fino alla vigilia dell'insurre- zione e di antichi repubblicani, di socialisti intransigenti e di liberali, che vedevano nel socialismo un'aberrazione. Da qui l'impossibilità di unità d'indirizzo nella politica del governo provvisorio e le sue molte contraddizioni. Ma non ostante la sua politica a sbalzi, ora troppo timida, ora troppo audace; non ostante gli errori e le colpe di lutti, la Repubblica francese del 1848 segnò sul suo cammino orme gloriose, che non poterono più essere distrutte: cancellò la pena di morte in materia politica, abolì la schiavitù nelle sue colonie, dichiarò inviolabile la libertà di stampa, considerò prin- cipale dovere del governo la cura degli inte- ressi delle classi lavoratrici e, ciò che sarà sua gloria immortale, stabili il suffragio uni- versale, divenuto la chiave di vòlta della so- cietà francese, « l'arco di trionfo (come scrisse un giorno L. Blanc) da cui passeranno tutte le idee liberatrici ». Gol suffragio universale gli elettori francesi da 200,000 divennero 9,000,000. IL MANIFESTO DI LAMaRTINE ALL'eUROPA. Nelle gazzette e nei libri inspirati a gallofobia s'è ripetuto per molti anni in Italia, fino a farla passare per verità slorica, l' asserzione che la repubblica francese del 1848 segui verso l'Italia, allora in lotta per la sua indipendenza, una condotta non meno egoistica di quella dei governi anteriori. Nulla di più falso; lutti i documenti di quel tempo attestano il con trario. 161 Quando, un anno dopo, avvenne la spedizione francese contro la repubblica romana, la rea- zione era già padrona dell'assemblea, e di re- pubblica il governo di Francia non aveva più che il nome. Ne era presidente Luigi Napo- leone. Non tutti, ma i più ardenti e i più popolari repubblicani francesi del 1848 avrebbero vo- luto fare della Francia il cavaliere armato del- l'emancipazione universale. Se in questa idea non erano unanimi, è perchè molti ricorda- vano le guerre passate come una delle cause che avevano fatto tralignare la prima Repubblica, e temevano che un soldato vittorioso avrebbe potuto farsi di nuovo padrone della Francia. Ma in questo pensiero eran tutti d'accordo : che la Francia, divenuta arbitra delle sue sorti, a- vrebbe cooperato alla liberazione dì quei po- poli, a cominciare dai più vicini, che fossero trovati in lotta coi loro oppressori. Il principio di solidarietà cogli altri popoli, ereditato dalla prima rivoluzione, faceva parte essenziale della dottrina repubblicana. Tutti i libri di scrittori democratici (Giorgio Sand, Lamennais, L. Blanc. C. Didier, H. Martin, Michelet. Quinet) sono informati a questo ca- rattere. In tutti gli atti più importanti dell'op- posizione radicale - dal Memorandum del 1832 agli elettori fino agli ultimi discorsi pronun- ciati in gennaio alla Camera, discutendosi l'in- dirizzo di risposta al discorso della Corona - i nomi d'Italia e di Polonia e, in ultimo, quello della Svizzera, sono ricordati per alTermare il dovere della Francia di assumerne al momento opportuno la difesa. Della desiderata e proclamata alleanza coi popoli liberi, o lottanti per la loro libertà, erano 11 162 pe{»no la comune fede e i legami di amicizia stretti dalla democrazia coi più ardenti pa- triotti italiani, polacclii, spagnuoli, russi e te- deschi, i quali, profughi dalla loro patria do- po i moti del 1831, avevano preso dimora in Parigi. Di questi sentimenti e di queste idee, che costituivano una tradizione non mai interrotta della democrazia francese, si fece interprete Lamartine, ministro degli esteri nel governo della Repubblica, in una circolare ai rappresen- tanti della Francia presso le potenze estere. È un documento nobilissimo di logica re- pubblicana, in cui si dichiara che il rispetto al diritto delle genti stabilito dai trattati, non deve fare ostacolo alla loro modificazione, quando lo esigono i doveri superiori di uma- nità e di giustizia internazionale. Cominciava la Circolare dal dichiarare : « La proclamazione della repubblica francese, non è un atto di aggressione contro veruna forma di governo nel mondo... « Le nazioni hanno, come gl'individui, età diverse. I principi che le regolano hanno fasi successive. I governi monarchici, aristocratici, costituzionali, re- pubblicani, sono l'espressione di questi diversi gradi di maturità del genio dei popoli. Essi domandano più libertà a misura che si sentono capaci di por- tarne il peso ; essi domandano più eguaglianza e più democrazia a misura che sono inspirati da mag- giore giustizia e da più amore per il popolo. « Questione di tempo »... La dottrina era giusta, e, richiamandola, era come dire ai governi monarchici che l'ora do- vrà venire anche per essi di sgombrare, una volta che i loro popoli si sentiranno abba- stanza maturi per non aver più bisogno d'una tutela regia o imperiale. 163 Nel momento in cui la Francia chiedeva di essere ammessa nella famiglia dei governi isti- tuiti, era un po' brusco dire ai più anziani: verrà il giorno in cui voi cesserete di esistere. Allora tutt'Europa era in subbuglio, e Lamar- tine poteva parlare alla diplomazia europea come ad un accademia di studiosi; ma subito dopo Lamartine, a tranquillare i governi mo- narchici intorno alle loro sorti, soggiungeva : « La monarchia e la repubblica non sono agli occhi dei veri uomini di Stato, principi assoluti che si combattono a morte ; sono fatti che possono vivere faccia a fìiccia, comprendendosi e rispettandosi ». Indi, affermato che la guerra " non é il prin- cipio della repubblica francese, „ Lamartine si diffondeva in molte considerazioni per dimo- strare la grandissima differenza che correva fra il 1792 e il 1848. « Ritornare (diceva) dopo un mezzo secolo al prin- cipio del 1792, o al principo di conquista dell'Im- pero, sarebbe non avanzare, ma retrocedere nel tempo. La rivoluzione di ieri è un passo avanti, non in- dietro. Il mondo e noi vogliamo camminare alla fratel- lanza e alla pace. « ...Il popolo e la pace sono una medesima pa- rola. « Nel 1792 le idee della Francia e dell' Europa non erano preparate a comprendere ed accettare la grande armonia delle nazioni tra loro, a beneficio del genere umano. Il jiensiero del secolo che finiva era nella testa soltanto di alcuni filosofi. La filoso- fia è divenuta popolare. Cinquant'anni di libertà di pensare, di parlare, di scrivere hanno prodotto questo risultato. I libri, i giornali, le tribune hanno operato 1' apostolato dell' intelligenza europea. La ragione radiante dovunque, al disopra delle fron- tiere dei popoli, ha creato tra gli spiriti questa grande nazionalità intellettuale, che sarà il compi- 164 uit'uto della rivoluzione traucese e la costitnziuiic della fratellanza iuteruazionale del globo. « La democrazia mi tempo faceva tremare i troni e scuotere le basi della società. Oggi i troni e i l>opoli si sono abituati alle parole, alle forme, alle agitazioni regolari della libertà, esercitata in pro- porzioni diverse in quasi tutti gli Stati, anche mo- narchici. Essi si abitueranno alla repul)blica, che è la sua forma completa presso le nazioni più ma- ture ». Poi, a dimostrare che non soltanto l'amore dei principi, ma l'interesse consigliava la Fran- cia ad astenersi dalla guerra, soggiungeva : « Non è la patria che corre i maggiori pericoli nella guerra, è la libertà. La guerra è quasi itempre la dittatura. « I soldati dimenticano le istituzioni per l'uomo ; i troni adescano gli ambiziosi... « La repubblica francese non farà dunque guerra ad alcuno. Essa l'accetterà, se saranno fatte al po- polo francese condizioni di doverla fare ». Qui toccava il punto scabroso : « I trattati del 1815 non esistono più in diritto agli occhi della repubblica francese; tuttavia le circo- scrizioni territoriali di (piesti trattati sono un fatto, ch'essa ammette come base e punto di partenza nei suoi rapporti colle altre nazioni ». Poi seguivano queste, per noi italiani, più importanti dichiarazioni: « Noi lo diciamo altamente: se l'ora della ricosti- tuzione di alcune nazionalità oppresse, in Europa o altrove, ci sembrerà sia suonata nei decreti della Provvidenza; se la Svizzera, nostra fedele alleata sin da Francesco I, fosse coartata o minacciata nel suo moto di interno sviluppo ; se gli Stati indi- pendenti d'Italia fossero invasi; so fossero imposti limiti od ostacoli alle loro interne trasformazioni ; se fosse loro contestato il diritto di allearsi fra essi , 165 per consolidare uua patria italiana, la Repubblica francese si crederebbe in diritto di armarsi essa me- desima per proteggere questi movimenti legittimi di risorgimento e di nazionalità dei popoli ». Non si poteva dire più chiaramente che chiesta di aiuto nella lotta degli italiani con-' tro l'Austria, la Francia l'avrebbe di gran cuore prestato. Per mettere d'accordo le allusioni a even- tualità guerresche colle precedenti dichiara- zioni pacifiche, Lamartine cosi chiudeva la sua circolare : « La Repubblica francese è decisa a non velar mai il suo principio democratico al di fuori... « Essa si proclama l'alleata intellettuale e cordiale di tutti i diritti, di tutti i progressi, di tutti gli sviluppi di istituzioni delle nazioni che vogliono vivere dello stesso suo principio. Essa non farà punto una propaganda sorda e incendiaria presso i suoi vicini. « Essa sa che non sono libertà durevoli se non quelle che nascono da sé medesime nel loro proprio suolo. Ma essa eserciterà, colla luce delle sue idee, collo spettacolo d'ordine e di pace ch'essa spera di dare al mondo, il solo e onesto proselitismo ! Il pro- selitismo della storia e della simpatia. Questa non è la guerra, è la natura; non è l'agitazione d'Eu- ropa, è la vita. Questo non è incendiare il mondo; è brillare dal proprio posto sull'orizzonte dei po- poli, per precederli e ad un tempo guidarli ». • « « Le dichiarazioni di questo manifesto, in cui si riflettevano le idee e i sentimenti della de- mocrazia francese, allora piena di entusiasmo e di fede nei destini della Francia e del mondo, fecero nell'opinione pubblica fuori di Francia, dove furono conosciute, la miglioro impres- sione. 166 Una Francia che senza mire di conquista of- frivasi aiulatrice dei popoli non ancora liberi nel momento in cui suonasse anche per essi l'ora del riscatto, era cosa troppo bella per non riescire d'incoraggiamento a quanti in diversi paesi lottavano o si apprestavano a combattere per la libertà o per l'indipendenza della loro patria. Tuttavia in Italia, dove le dichiarazioni cosi promettenti del Governo provvisorio di Francia dovevano essere accolte con maggiore giubilo, fecero meno impressione che altrove, perchè i maggiorenti d'allora, tutti assorti nel pensiero di porre sul capo di Carlo Alberto la corona ferrea, nutrivano intorno alla Francia, perchè Repubblica, più diffidenza che simpatia e fi- ducia. Subito dopo le Cinque Giornate di Milano il Governo provvisorio della repubblica francese, a conférma delle dichiarazioni del manifesto di Lamartine, riuni a Grenoble un esercito, detto delle Alpi, perchè fosse pronto a passare in Italia al primo invito dei lombardi o del re di Piemonte. Non invitato, quell'esercito non si mosse. Ve- dremo più tardi come l'aiuto fu chiesto, quando il darlo non era più possibile, senza gravi pe- ricoli per la Francia e per l'Europa. Quei governi d'Europa che avrebbero potuto essere irritati della superiorità morale data nel manifesto di Lamartine all'idea repubblicana, contrapposta a quella monarchica, amarono ve- dere nel manifesto di Lamartine, la parte pra- tica, vale a dire la dichiarazione che mai la repubblica francese avrebbe preso l' iniziativa della guerra. Rassicurati da questo lato, invia- rono, l'un dopo l'altro, il loro atto di riconosci- 167 mento alla repubblica, non appena l'Assemblea eletta dal suffragio universale ne ebbe fatta la solenne dichiarazione. Col fare accettare dalle vecchie monarchie la repubblica francese quale parte integrante del sistema europeo, il governo provvisorio po- teva dire di avere riportato una bella vit- toria. Dando alla repubblica francese diritto di cittadinanza in Europa, era l'avvenire assicurato all'idea repubblicana, la quale più colla pace che colla guerra avrebbe potuto fare il suo cammino anche fuori di Francia. Ma non era ciò che volevano i superstiti del vecchio giacobinismo, ciò che avevano sognato i giovani usciti dalle società segrete, che ave- vano combattuto alle barricate , a fianco di profughi italiani, spagnuoli, tedeschi, polacchi, ebbri di libertà, di fratellanza e di rinnovamento universale. Avevano combattuto la monarchia di Luigi Filippo sovratutto per la sua politica pacifica, tutta favorevole ai coronati della Santa Allean- za, e nel loro pensiero la Francia repubbli- cana non poteva rinunciare a far la guerra per la liberazione dell'Italia e della Polonia. La Polonia sovratutto loro stava a cuore, dopo che l'Italia, non più soltanto a parole, ma colla prodigiosa sollevazione di Lombardia e del Veneto, aveva mostrato di poter bastare alla propria affrancazione colle sole sue forze. La liberazione della Polonia, alla quale gli stessi trattati del 1815 avevano assicurato un regno autonomo e una costituzione, pareva a molti un debito d'onore della Francia. Ricordammo a suo tempo come lo zar, con- fermando coi fatti una sua barbara minaccia, 168 all'indomani della insurrezione polacca del 1831 decretò la fine del regno di Polonia. D'allora in poi le Camere francesi, sebbene in grandissima maggioranza monarchiche e mi- nisteriali, vollero, all'apertura d'ogni sezione, inserire nell'indirizzo di risposta al discorso della Corona un voto di protesta in favore della Polonia, Ecco la serie di questi voti : Camera dei deputati - 20 gennaio 1837. « Questa pace, Sire, uou sarà mai più fortemente garantita che quando sarà fondata sul rispetto dei diritti consacrati dai trattati, e, fra Ciò spiega l'inerzia della truppa nelle prime ore della sollevazione. Il manifesto del governo colle sue famose concessioni, provocò dappertutto risa di scherno e manifestazioni di aperta ostilità. In molti luoghi fu stracciato; in altri ai piedi del ma- nifesto fu scritto: Troppo tardi! Milano, nei luoghi più frequentati, prese su- bito l'aspetto d'una città che presentisce o sta per compiere un sollevamento. Molti, affacciandosi alle finestre, guardavano nelle vie, per scoprire se v'era già un principio di rivolta. Le botteghe venivano aperte con circospezione ; gli amici, incontrandosi, si da- vano strette di mano con insolito calore, colle quali pareva dicessero: Alla gran festa ci sa- remo ! Benché la dimostrazione fosse annunciata per le ore 2, già prima di mezzogiorno il cortile del Broletto era pieno di gente d'ogni classe, molti armali di nodosi bastoni, altri provvisti di ombrelli, perchè il tempo era piovoso, tutti ansiosi che il Municipio desse mano all'arma- mento della Guardia civica, ch'era in quel mo- mento il voto generale. Il Municipio non desiderava di meglio che di sottrarsi al pericolo di prendere parte ad 196 un atto rivoluzionario, quale sarebbe slata la proclamazione di un governo provvisorio, come il De Luigi e i suoi amici avevano divisato. Fatta correre fra la folla la voce che per soddisfare i voti della cittadinanza, il Municipio si sarebbe recato in corpo alla sede del go- verno, il podestà Casati cogli assessori e il de- legato provinciale (prefetto) Bellati, che aveva pur esso stanza al Broletto, scesero in cortile per avviarsi, seguiti dalla moltitudine, al pa- lazzo Monforte, sede del governo. Quando il corteo, dopo avere evitato, girando a sinistra, la Gran Guardia ch'era in piazza Mercanti, fu in principio del Corso, il Casati dovette accorgersi che non era più in poter suo di guidare una dimostrazione, alla quale si poteva dire che tutta la città prendeva parte. Lo spettacolo era immenso. 11 Corso era tutto pieno di gente, e centinaia di persone, mar- ciando in colonna serrata, precedevano il corteo del Municipio, dirigendosi evidentemente verso la stessa méta. Le finestre ed i balconi erano gremiti di si- gnore e (ii fanciulle, come da gran tempo non si era veduto. Tutte sventolavano fazzoletti, bat- tevano le mani, mandavano evviva all'Italia e a Pio IX. Da molte finestre le fanciulle gettavano coccarde a profusione, accolte dovunque dalla folla con frenetica esultanza. Di una di queste coccarde il podestà Casati ebbe il petto fregiato da un uomo della folla. Il corteo, mano mano che inoltrava , più in- grossava. Passando davanti ai caffè del Corso, da un pezzo scomparsi, ne uscivano i più noti frequentatori, Cadolini di Cremona, l'inge- gnere Sorre, Luciano Manara e altri stimati 197 per già dimostrato patriottismo, che si uni- vano alla imponente processione. Dal caffè San Carlo, in faccia alla Chiesa, uscì un gio- vine che portava una grande bandiera tricolore e si mise in testa al corteo. Nuovi entusiastici applausi si sollevarono a quella vista. Il delirio era indescrivibile. Era tutto un popolo, che dopo lunga oppressione, sentiva tutta l' ebbrezza della libertà , di cui, prima ancora d'averla conquistata, si sentiva già in possesso. Chi assistette a quello straordinario spetta- colo non avrebbe dato le gioie allora provate per tutte le grandezze del mondo. Mentre il corteo accompagnante la deputazione municipale, si avanzava a passo lento lungo il Corso, salutato dovunque da entusiastiche acclamazioni, una parte della folla che lo pre- cedeva, era già entrata nella via Monforte, che allora fine? al ponte era detta di San Romano. Al Leone di San Babila, il Carlo Clerici aveva arringato la folla, conchiudendo che si andava al palazzo di governo per proclamare un go- verno provvisorio. Un grido allora alzatosi di morte ai tedeschi! fu subito represso, e uno che li presso tentò di dar principio all'erezione d'una barricata ne fu impedito. Si credeva ancora da parecchi che tutto potesse finire pacificamente, ma l'il- lusione durò poco. I soldati di guardia al palazzo di governo, ch'erano ungheresi, vedendo avvicinarsi quel- l'immensa moltitudine, la quale occupava tutta quanta la strada, spianarono i Fucili e grida- rono l'alt, per tenerla lontana. Prima che avessero fatto fuoco, furono loro addosso alcuni dei più animosi, che precede- vano la folla di alcuni passi. 198 Con un colpo di pistola a bruciapelo tirato da un chierico (Zaffaroni), uno dei soldati fu spento; un altro dopo un colpo datogli sul capo con un bastone piombato, che lo tramortì, fu trapassato colla bajonetta del suo mede- simo fucile; gli altri fuggirono. Fu il primo sangue versato, e fu tanto più deplorevole in quanto poteva essere risparmiato. La folla era cosi imponente, che avrebbe po- tuto disarmare quei pochi soldati senza far loro altra violenza. Erano vittime, non stromenti volontari del despotismo austriaco, e appartenevano a un paese, il quale come il nostro, agognava alla propria indipendenza, e avrebbe lottato più a lungo e più ostinatamente di noi italiani per riconquistarla. Alla vista di quei due giovani robusti, fatti ad un tratto cadaveri, dall'occhio vitreo, dal viso livido, lordi del proprio sangue, alcuni fra i primi che sopraggiunsero colla folla provarono l'impressione d'un gelo che corresse loro per le vene, e confusamente sentirono quanto vi è di inumano e di crudele nel seminare di vittime innocenti il cammino della libertà. Essi avreb- bero voluto far ritirare subito quei cadaveri; altri si opposero dicendo che in quei morti il popolo doveva vedere la propria forza , e che bisognava abituarlo alla vista del sangue , per famigliarizzarlo alla lotta; furono portati nel cortile e coperti con una stuoja. Pur troppo la insurrezione, se metteva in luce virtù rare di abnegazione e di eroismo^ ravvivava quegli istinti di lotta, che i buoni di ogni paese vorrebbero sopprimere. Quelle due uccisioni, e poche altre dello stesso carattere, furono i punti neri della in- 199 surrezione delle Cinque Giornate, le quali l'in- fatuato patriottismo dei suoi apologisti volle tramandare alla storia come atti di valore, ma, se esse spiegano 1' esasperazione della truppa austriaca in quei giorni, non giustificano, come vorrebbe l'autore (gen. Schònhals) delle Memo- rie d'un veterano austriaco, gli atti di inenarra- bile ferocia commessi da una parte dei soldati fin dal primo giorno. Sulla traccia dei primi che avevano ucciso o messi in fuga i soldati di guardia, la folla come torrente che straripa, precipitò nel cor- tile del palazzo di governo. I più previdenti corsero alle rimesse, e tratte le carrozze, ne fecero barricate ; altri salirono agli Uffici, e, per sfogare la propria avversione alla dominazione austriaca, quante carte e li- bri e documenti trovarono sui tavoli e negli scaffali gettarono nel cortile. Dopo le carte diedero mano ai quadri, ai mobili. Durava questo pandemonio, quando arrivò la deputazione municipale, cogli altri notabili cittadini che l'accompagnavano. Trovato il vice-governatore O' Donnei, fu condotto nella sala del Consiglio dove, circon- dato dai municipali, riuscite vane le sue resi- stenze, fu costretto, specialmente da Enrico Cernuschi, a firmare i tre decreti riguardanti l'abolizione della polizia, l'armamento della guardia civica e l'autorità politica rimessa nel Municipio. Non era finito questo primo atto della rivo- luzione, quando arrivò al governo l'arcivescovo Romilli, fino allora popolarissimo, anch' egli fregiato della coccarda tricolore, che qualcuno gli aveva messo sull'abito pastorale; era venuto per unire i suoi buoni uffici a quelli della 300 deputazione per ottenere le chieste conces- sioni. Ottenuti i tre decreti, sebbene estorti colla forza, il Gasati e molti con lui dovettero sup- porre la rivoluzione compiuta, e quanti ave- vano avuto parte alla facile vittoria, traendo seco loro, come ostaggio, il vice-governatore, lasciarono il palazzo di governo per far ri- torno al Municipio, e là provvedere alla nuova situazione politica , cominciando dalla guardia civica. 1 municipali, col loro ostaggio, erano appena in cammino, quando corse voce che una co- lonna austriaca , con artiglieria, veniva alla volta di via Monforte, per riprendere quella posizione. L'insurrezione era rimasta là padrona ben più di un'ora. Se ci fosse stato un po' di quella prepa- razione, a cui s'è accennato, e riunito un centinaio d'armati, si sarebbe potuto darli nella sede del governo e nelle adiacenti vie, già barricate, un combattimento alla truppa, e, grazie al panico di cui questa fu vista invasa, si poteva respingerla. Invece là di armati non ce n'erano, onde tutti furono lesti ad andarsene, prima che la colonna annunciata arrivasse. Due giovani che non fu- rono in tempo a mettersi in salvo, inseguiti dai soldati fino sui tetti d'una casa vicina, fu- rono colpiti da fucilate e gettati in strada. Abitava al secondo piano del palazzo di go- verno il conte Pachta , consigliere di governo, a cui la voce pubblica attribuiva i più odiosi provvedimenti di polizia. Nell'ora in cui il po- polo fu padrone del palazzo, s'era da taluno progettato d'andare a stanarlo e farne somma- 201 ria giustizia. Ma bastò che uno dicesse : " La- sciate quel verme; tenete le mani pure „ per- ché nessuno pensasse più a molestarlo. La moglie del governatore, riparando in casa d'amici, aveva dimenticato nel suo apparta- mento la cassetta delle sue gioje. Informatine alcuni degli invasori , la cassetta fu rimessa intatta nelle sue mani. Di simili atti di generosità la storia delle Cinque Giornate è tutta piena. Quando la schiera col Casati, che conduceva ostaggio o prigioniero il vice-governatore, in cammino pel Broletto, giunse a metà la via del Monte Napoleone, fu arrestata da mezza compagnia di fanteria, che si avanzava dalla parte opposta. Fu quello il primo scontro, sebbene le fuci- cilate fossero già cominciate in altri punti della città, e già si erigessero barricate in molli luoghi. E poiché si avesse fin da principio la prova che il grido di morte ai tedeschi, che qualcuno accompagnava a quello di viva Italia, era male appropriato, la fatalità volle che quella mezza compagnia fosse di soldati italiani, e proprio da essi fu versato il primo sangue cittadino, quello d'un povero cuoco, che s'era unito alla schiera del Casati e del Cernuschi. Questi col loro pre- zioso ostaggio ripararono nella più vicina casa (Vidiserti), che fu perciò chiamata il primo quar- tiere generale dell'insurrezione. Un particolare curioso, che nessun libro di storia ha registrato, è che comandante di quella mezza compagnia era il tenente Carcano, fra- tello dello scrittore Giulio Carcano, il quale se 202 non si trovò in quel momento ai fianchi di Casati e degli altri, dove avrebbe potuto essere colpito da una delle fucilate ordinate dal fratello, fu per mero caso. Il terzo giorno della insurrezione il tenente Carcano passò all'insurrezione; continuata poi la carriera militare nell'esercito italiano, mori verso il 1871 col grado di colonnello in ritiro. Il maresciallo Radetsky, quando ebbe le prime notizie dei fatti avvenuti al palazzo di governo, fece tuonare il cannone d'allarme, con cui voleva significare la città messa in stato d'assedio. Die ordine al generale de Woh- gemuth, nel cui raggio d'occupazione trovavasi il palazzo di governo, di rioccuparlo con tutte le forze possibili, ciò che fu fatto, come s'è visto, senza la minima difficoltà; e mandò il maggiore gen. Rath, con una forte colonna di granatieri ungaresi e di cacciatori, a occupare il palazzo di Corte, il Duomo, il palazzo di Giustizia, e le vie e piazze adiacenti. Per isolare Milano, e impedire che dal di fuori le venissero soccorsi, fece tosto occu- pare le porte di città e i bastioni da nume- rosa truppa. Alcune pattuglie dovevano procurare di te- nere sgombre le vie e le piazze più vicine ai posti occupati. Se invece di limitarsi a queste disposizioni rudimentali, il maresciallo Radetsky, a cui l'in- sipienza dei suoi avversari in campo diede poi riputazione di gran generale, coi quindici mila uomini che aveva sotto mano , avesse fatto occupare le piazze e le principali arte- rie della città, e con numerose colonne di 203 ogni arma, abbattute le poche e fragili barri- cate costrutte nelle prime ore. e impedito che altre se ne formassero, il primo giorno dell'in- surrezione , ne sarebbe stato probabilmente anche l'ultimo. La prova è che in quel giorno, tranne alcuni atti di coraggio compiuti da singoli individui, e le botte toccate a drappelli isolati e special- mente alla colonna del gen. Rath prima di ar- rivare alla sua destinazione, nessun vantaggio notevole potè riportare l'insurrezione. Tutto il talento strategico di Radetsky si spiegò quel giorno nell'assalto del Broletto, dove sperò impadronirsi del Casati e del Co- mitato insurrezionale da lui sognato, avuti i quali nelle mani egli immaginava l'insurre- zione irrimediabilmente spenta. Nel Broletto c'erano alcuni assessori e altri notabili cittadini, i quali avendo preso sul serio i tre decreti firmati dal vice-governatore, atten- devano alla inscrizione dei militi della Guardia Civica, dopo averne data bonariameute comu- nicazione a Radetsky medesimo, e facendo ap- pello alla sua generosità per impedire scene di sangue. Ingenui troppo, non avevano neppure pen- sato a mettersi in stato di difesa, né a tener aperta, in caso d'assalto, una via di ritirata. Non si accorsero neppure della pericolosa situazione in cui si trovavano, quando Radet- sky, in risposta alla nota dal Municipio, gli in- timava l'immediato disarmo, minacciando in caso diverso " di bombardare la città « e di far uso " del saccheggio e di tutti gli altri mezzi in suo potere « per ridurre una città ribelle „. Soltanto quando la colonna del colonnello Dòli, facendo un fuoco indiavolato, fu poco 204 lungi dal Broletto, e alcuni dei feriti furono portati nel cortile, si corse alle difese. Assaliti, nessuno dei cittadini pensò a met tersi in salvo. Non più di cinquanta erano là dentro quelli che avevano un fucile, compresi 1 fucili dei pom- pieri municipali. " Alle finestre gli armati „ si gridò, e a cia- scuna delle finestre del primo piano verso la strada d'onde veniva la colonna assalitrice, si disposero gli armati di schioppo. Degli inermi, circa una sessantina, fra cui molti operai ti- pografi, che dal tocco in poi erano stati in- stancabili nel costrurre barricate in varii punti della città, corsero ai tetti. Le fucilate che venivano dalle finestre e la tempesta terribile di tegole che cadevano dai tetti, misero presto la colonna assalitrice nella impossibilità di avanzarsi. Durava da qualche ora il combattimento, quando il colonnello che la comandava fece conoscere a Radetsky gli insuperabili ostacoli che gli si opponevano. Allora gli fu mandato, con truppe di rinforzo, un pezzo da cannone di grosso calibro. Con questo, collocato in una bottega di faccia all'entrata principale del Broletto, non fu dif- fìcile aprire una larga breccia nella porta. 1 soldati entrarono nel cortile infuriando e sparando alla cieca, e avrebbero fatto un mas- sacro di tutti i cittadini trovati nel Broletto, se non ne fossero stati trattenuti dagli ufficiali superiori. Quelli che corsero più grave pericolo furono i combattenti sui tetti, dai quali quei soldati avevano avuto maggiori danni. Uno dei tipo- grafi ricordò cosi quella scena: 205 « Suonavano le 10 li2 che alcuni reisinger (soldati boemi) salgono sul tetto. Noi vedendoli venire, de- terminammo gettarli tutti abbasso, anziché lasciarci prendere. Xon si poteva vedere per l'oscurità e per la fitta pioggia. Noi eravamo sul piovente verso strada ; essi verso il cortile, e distanti da noi non piìi di quattro braccia. Ognuno si può immaginare la gioia nostra, veden- doli scendere ; ma nessuno fiatava per non essere presi. Accovacciati alla meglio sui legni nudati di tegole, riposammo con una tremenda fame fino alle tre e mezza dopo mezzanotte ». (Archivio D'iennale Yol. II n. 19). Fra oltraggi e minaccie tutti i cittadini tro- vati nelle sale del Municipio e nell'apparta- mento del delegato provinciale, circa 200, col Bellati medesimo, gli assessori e non pochi appartenenti al più antico patriziato milanese furono condotti nella notte medesima prigio- nieri in Castello. " Fucilali tutti «, loro dicevano ufficiali e soldati, esasperati pei pericoli corsi e pei com- pagni uccisi e feriti. Radetsky, dolente di non avere trovato, fra quei prigionieri, l'uomo ch'egli credeva capo dell'insurrezione, mandò in quella notte al ge- nerale Ficquelmont, presidente del Consiglio aulico di guerra, un rapporto, in cui diceva che il combattimento al Broletto durò " quattro ore, dai ribelli sostenuto con coraggio smi- surato „. II rapporto così conchiudeva : « Non posso indicare la mia perdita in morti e fe- riti, ma non può esser lieve. Per il momento c'è quiete; ma può darsi che al levar del giorno rico- minci il conflitto. « Io sono deliberato a restare, a qualunque costo, pa- drone di Milano. Se tion si desiste dalla pugna, bomhar- derò la città ». 206 Il povero maresciallo così scrivendo ignorava che alle bombe mancavano in gran parte i mortai, e che le poche che poterono essere lanciale, riuscendo inoffensive, furono oggetto di burla ai combattenti e (ii giocattolo ai fan- ciulli. * * * Carlo Catt:)nco, con ammirevole concisione, cosi riassume il concetto storico di quella me- morabile giornata : « Alcuni giovani costrinsero i municipali di Mi- lano a prestare all'irritato popolo un'occasione di tumulto : Radetsky se ne giovò, per afferrar tosto l'ambito governo militare ; ma nel farlo, sebbene la rivoluzione non avesse armi, né capitani, né consiglio, ne tampoco notizia di sé, evocò dalle viscere del po- polo una forza, che i suoi centomila armati non val- sero pili a prostrare ». {Archivio Triennale Voi. II, pag. 611). Tutto vero, ma bisogna aggiungere che Ra- detsky non ebbe nel primo giorno un'idea chiara della sollevazione cominciata ; ciò rese la sua azione in quel giorno e nel seguente in- certa, slegata e fiacca quasi dovunque. Cosi diede tempo alla insurrezione di durare, di dilatarsi e di divenire irresistibile. 19 marzo. Il vecchio maresciallo, sebbene avesse pre- veduto che col nuovo giorno la lotta sarebbe ricominciata, non aveva preso durante la notte alcuna deliberazione per dare all'insurrezione un colpo decisivo. Egli, che aveva sotto di sé in Castello diecimila uomini all'incirca, confi- dava, per vincere, nei cinque mila uomini spar- pagliati in cinquanta diversi posti della città. 207 Lo storiografo di Radetsk}- cosi scrisse nelle Memorie d'nn Veterano Austriaco : « Durante la giornata del 19 continuò con non in- terrotto furore la pugna; la guarnigione si man- tenne su tutti i punti padrona delle sue posizioni, ma era troppo debole per app)ofittare dei conseguiti vantaggi ». - I « conseguiti vantaggi ^> saranno stati quelli del giorno prima : la rioccupazione del palazzo Monforte e la presa del Broletto, ma nei trenta e più combattimenti e avvisaglie cìie avvennero nella seconda giornata, gli austriaci, dove ten- tarono di avanzarsi verso il centro, furono re- spinti con gravi perdite. Non con « furore », come enfaticamente scrive il « Veterano austriaco », si combattè dagli au- striaci, che le fragili barricate di quel giorno non seppero atterrare ; non dagli insorti, che in quel giorno come nei seguenti combatte- rono con allegra baldanza, senza mai smentire l'umor faceto, proprio del carattere milanese, ora preparando piacevoli burlette ai soldati, con fantocci, o con animali sovrapposti alle barricate, ora accompagnando i colpi falliti de- gli austriaci con grida canzonatorie. Intanto il suono incessante delle campane a stormo, che, per confessione medesima del citato autore (generale Schònhals) « lacerava i nervi » di uf- ficiali e soldati, accresceva sempre più il co- raggio dei milanesi. Basteranno come prova dell'ardore che tutti animava, questi pochi cenni. Sul corso di porta Orientale gli austriaci, col favore della notte, si erano avanzati con due cannoni fin presso il Seminario; dato in tempo l'allarme furono cacciati fino al dazio da pochi 208 tiratori. Uno dei migliori fra questi. Giuseppe Broggi, vi lasciò la vita. Sul ponte Monforte, due soli giovani armati di carabina costrinsero i soldati, elle facevano scorta a un cannone, e gli artiglieri insieme, a ripararsi dietro le colonne del palazzo di governo. Gli Archi di Porta Nuova, dove, combattendo valorosamente, era stato ucciso nelle prime ore il salumiere Volontieri, furono, sotto il grandinar delle palle nemiche, presi due volte da un manipolo di prodi, di cui facevano parte Augusto Anfossi, Luciano Manara, Luigi Della Porla, i fratelli Dandolo, che tutti diedero per la libertà d'Italia la vita. I soldati di custodia al palazzo del Criminale, che avevano tentato di prendere posizione agli sbocchi delle vie vicine, furono costretti dai tiratori, appostati agli angoli di quelle vie, a rifugiarsi in tutta fretta entro il palazzo. Dal Broletto un ufficiale, in mezzo ai suoi soldati, minacciava ai cittadini la forca. « La forca sarà per te » gli rispose il dro- ghiere Puricelli, e, benché ferito, non si ritirò finché non vide quel superbo rintanarsi coi suoi nel Broletto. Al ponte dei Fabbri il padre dello scrivente (che pur sotto la dominazione austriaca aveva serbato animo di indomito patriotla e di au- stero repubblicano) insieme ai suoi figli, quasi tutti adolescenti, senz'armi, coi soli mattoni, di cui avevano munito ogni finestra, sostenne un forte combattimento contro una compagnia di reisinger, costringendola in fine alla ritirata coll'abbandono di due carriaggi ; tanto bastò perché da quel giorno in poi gli austriaci più non tentassero dal Castello di venire fin là, neppure per mettere in salvo l'archivio mili tare che avevano li vicino. 209 Là e dovunque si combatteva isolatamente, come le circostanze suggerivano, senza saper nulla di ciò che avveniva in altre parti della città, ignorandosi perfino da molti l'esistenza d'un Comitato dirigente. Doleva di dover combattere contro poveri soldati, che una legge fatale ci aveva posto di fronte, ed era una festa tutte le volte che uno di essi cadeva nelle mani degli insorti, lieti di non veder più in lui un nemico. Fu perciò accolta con premura dal Municipio, in quel giorno trasferito in Casa Taverna in via Bigli, la notizia che molti soldati ungaresi di presidio al Gran Comando erano disposti a passare dalla parte della popolazione, se qual- cuno si fosse a loro presentato. Non badando ai pericoli, vollero tentare que- st'impresa l'Augusto Anfossi e Luigi Torelli. Nell'avvicinarsi a quel posto, sventolarono un fazzoletto bianco. — Eljen Magiari (viva l'Ungaria !) gridò loro il Torelli, che ricordava qualche parola unga- rese. — Eljen, Eljen, risposero molti di quei sol- dati. Confortato da tale accoglienza, il Torelli si rivolse al maggiore che comandava il battaglione ; gli parlò della situazione nuova creata dalla rivoluzione di Vienna, e del desi- derio che cessasse ogni resistenza e così ri- sparmiare inutili sacrifìci. L'ufficiale, che aveva ascoltato quel discorso con molta calma, rispose al Torelli ; No, non lo posso; non fate ostilità voi, e non ne fa- remo noi. Torelli insistette, ma il maggiore con ac- cento più risoluto replicò : Non fate nnlla a noi, e noi faremo nulla a voi. 14 210 I due messaggeri, visto clie nulla potevano ottenere, salutato l'ufficiale e i soldati, ricalca- rono i loro passi, facendo indisturbati il viaggio di ritorno. Questo piccolo episodio dimostra come con un po' più di preparazione non sarebbe stato impossibile ottenere la neutralità d'una parte della guarnigione austriaca, e dimostra che auando tutto un popolo è unito, ed ha per se l ragion del diritto, non è difficile eh esso vinca colla sola forza morale, come Manin e Avesani vinsero il 22 marzo a Venezia senza spargimento di sangue. Alla sera di quel secondo giorno fu costi- tuito con Cattaneo, Enrico Cernuschi, Giulio Terzaghi e Giorgio Clerici un Comitato per dare un po' di direzione agli sforzi disgregati dell'insurrezione. Lo scopo era buono, ma una vera e propria direzione della lotta non si vide neppur dopo la costituzione di questo Gomi- tato'che fu però utile, specialmente neiravere con efficacia contribuito a respingere 1 armi- stizio proposto due volte da Radestky. Dal canto suo Radetsky, accortosi che la lotta diventava per lui molto difficile . prese la ri- soluzione di concentrare su Milano tutte le truppe sparse nella Lombardia. » In conse- guenza di ciò scrive il Veterano Austriaco, (leggi gen. Schònals): « A tutte le guarnigiom fu spedito ordine di ve- nire a marcie forzate verso Milano. Ma allora s. co- nobbe quanto già fosse generale l'insurrezione. Tutto le strade erano rotte, i ponti distrutti o^^.^, tutti (?) i villaggi ingombri e chiusi ^a barncate, era impossibile far giungere un ordine alle truppe. Uno solo ne pervenne a destinazione ». Fu quello di Bergamo, di dove, contro la pa- 211 rola dell'arciduca Sigismondo, un battaglione del suo reggimento, composto di italiani, arrestato e uccisogli il comandante dal popolo di borgo Palazzo sollevatosi, potè evadere di notte dalla caserma in cui era stato ricacciato, e giungere a Milano. Varese, Lecco, la Valtellina erano insorte ; Como s'era impadronita della polveriera di Geno e aveva bloccato nelle caserme le truppe del presidio. A Brescia, a Cremona, a Mantova, corsa no- tizia dell'insurrezione di Milano, la massa dei cittadini era impaziente di seguirne l'esempio, e non attendeva per insorgere che un cenno dai municipali e da quelli che considerava suoi capi. Ma questi, dominati da quello spi- rito di pace, di cui, come s'è visto, erano stati animati in principio anche i maggiorenti mi- lanesi, non pensarono che a tenere in freno le popolazioni, immaginando di poter compiere la rivoluzione d'amore e d'accordo colle autorità militari austriache. Chi in quel momento non si cullava in sogni di benevolenza e di pace, era Pxadetsky, il quale, dopo avere chiamato a sé due battaglioni tirolesi da Crema, uno del Giulay da Pavia, altri soldati da Monza, scriveva nella notte al Ficquelmont : *' Chiamo a me cinque battaglioni, coi quali domani all'alba comincio di nuovo il combattimento contro Milano, e lo condurrò, spero, a buon fine. ,, 20 marzo. Invece del combattimento che Radetsky aveva annunciato, verso l'alba avvenne una ritirata 212 delle truppe da tutte le posizioni <^f'^trali, tranne dalle caserme e dai posti che potevano mante- nersi in comunicazione col Castello. Tutto il suo ardore belligero Radetsky lo sfocava nei suoi rapporti al Ficquelmont ma neU'azione recava una prudenza che poteva ^"^a^^ difficile fu quella del generale Rjih, che occupava il palazzo di Corte e le ad. cenzè, poiché doveva trarre con se, oltre e truppe, molte famiglie e il basso personale d Corte. La ritirata, sebbene eseguita a alba ed aran corsa, non avvenne senza perdite, perche fcittXi, svegliati all'improvviso rumore, non Inancaron; di mandare ai fuggenti un saluto di palle e di pietre. Rimasero così sgombri la Corte. .1 Palazzo di Giustizia, il Duomo, la piazza Mercanti e la Di- rezione di Polizia. I soldati austriaci, specialmente i croati, ave- vano già in quei tre giorni sfogato la loro rabbia u degli inermi; avevano ucciso il predicatore di SaS Bartolomeo, e massacrato persone inof- fensive nelle loro case sul corso di porta Co- masina (porta Garibaldi) e in altre estreme parti 'tn'q'uef medesimo giorno tre cittadini furono uccis?a tradimento dai poliziotti del circondario di San Simone, i quali, dopo avere inalberata la bandiera bianca in segno di capi olazione fe- cero fuoco all'improvviso sulla folla accorsa a c.uell'invito. Né il popolo aveva dimenticato i Irti e i feriti del vile agguato del 3 gennaio Ora entrava trionfatore nel palazzo di corte e negli uffici governativi, dove tanti atti di osti- li iJ erano stati orditi contro la popolazione. Po- teva vendicarsene; invece a tutti perdono, ri- spettò tutti. 213 Il direttore della polizia, Torresani, fuggendo, aveva abbandonato la moglie, la figlia e la ve- dova del figlio coll'unica bambina. A tutte quante furono usati i più delicati riguardi, e raccoman- date alle cure ospitali d'una famiglia milanese, in seno alla quale furono condotte. Nascosto in una soffitta fu scoperto il conte Bolza, commissario di polizia, odiato da tutti per la caccia che dava ai patriotti. Nessuno gli fece violenza e neppure un oltraggio. Nel palazzo di Corte c'erano famiglie tedesche rifugiate in chiesa; altre, ammalate. La grande benevolenza, con cui furono trattate, fu ricono- sciuta anche dal diplomatico austriaco Hùbner, allora uomo di fiducia di Metternich, che l'a- veva mandato qualche settimana prima a Milano per avere da lui notizie precise della città, di- venuta quasi ad un tratto ingovernabile per l'Austria. Nel suo libro : Une année de ma vie (Paris - Hachette, 1895) tutt'altro che benevolo pei milanesi , così parla dei cittadini che en- trarono nel palazzo di Corte, appena abbando- nato dal generale Rath (pag. 82): " L'ultimo dei nostri soldati era appena scomparso che uomini armati vi penetrarono, sfondarono le porte delle sale, si sparsero negli appartamenti, ruppero i mobili e quanto vi si trovava, ma rispettarono la camera da letto della povera contessa Woyna, grande- maitresse dell'arciducliessa, la qtiale malata e a letto non aveva potuto partire colla Corte, né fecero del male alle rifugiate nella cappella. " Questo fatto merita di essere notato. I nostri sol- dati, appostati alle finestre del palazzo e sul Duomo, avevano, nei due giorni di combattimento, steso a terra buon numero d'insorti. Ora, liberi di saziare la loro vendetta, ebbri del loro successo, costoro, appar- tenenti in gran parte al basso popolo, anche nei primi momenti d'esaltazione saccheggiarono, è vero, 214 .il palazzo, ma non toccarono né le persone, n^ le proprietà dei vinti. Questo tratto caratterizza l'ita- liano , Tali virili e generosi propositi erano in tutta la popolazione. Un solo istante furono da pochi individui dimenticati, e fu quando alcuni poliziotti del circondario di San Simone, caduti nella loro fuga per guadagnare il bastione, fu- rono trucidati ferocemente da combattenti esa- sperati, che credettero di cosi vendicare i cit- tadini uccisi due giorni prima a tradimento , ma anche allora vi furono di quelli — e il padre dello scrivente fu fra costoro — che fecero ogni sforzo per salvare quei disgraziati da quella giustizia sommaria. Fuori di questi atti isolati, che possono con- siderarsi come un'eccezione, l'insurrezione mi- lanese conservò fino all'ultimo uno spirito di umanità, che difficilmente si trova nella storia di altre insurrezioni. Interprete del sentimento generale, il Consi- glio di Guerra in uno dei suoi primi manifesti diceva : " Prodi Cittadini ! Conserviamo pura la nostra vit- toria; non discendiamo a vendicarci nel sanj^ue dei ini.serabili satelliti, che il i)otere fuggitivo lasciò nelle nostre mani. ,, Sentimenti ben diversi erano quelli che in quel medesimo giorno esprimeva l'arciduca Raineri, figlio del viceré, che, scrivendo da Ve- rona al fratello, si consolava immaginando che la legge marziale fosse già in opera in Milano, e " fucilati « tutti i cittadini fatti prigionieri. In quel medesimo giorno il Casati, cogli as- sessori, senza costituirsi in Governo provvi- sorio, come fece finalmente il quinto giorno, 215 annunziava che trovandosi la città " per le terri- bili circostanze di fatto „ " abbandonata dalle diverse autorità ,, la Congregazione Municipale assumeva " in via interinale „ la direzione d'ogni potere, aggregandosi come collaboratori alcuni altri cittadini, fra i quali Borromeo, Glutini, Guerrieri. Era appena formato questo simulacro di Go- verno, quando gli si presentò un maggiore dei croati, chiedendo in nome di Radetsky qual fosse la mente dei magistrati. In sostanza veniva a sentire se chi era a capo dell'insurrezione era disposto a stipulare una tregua di qualche giorno. Il Casati propendeva per un armistizio di quindici giorni, affinchè il maresciallo potesse invocare da Vienna nuove concessioni, ma in realtà per dar tempo all'e- sercito piemontese di venire in soccorso di Milano ; volle però sentire il parere del Consi- glio di guerra. Parlò per esso il Cattaneo, il quale, ben sapendo che l'ardore insurrezionale una volta raffreddato difficilmente si risveglia, di- mostrato come fosse impossibile staccare dalle barricate i cittadini, ottenne che l'armistizio fosse respinto e rotte le trattative. Il maggiore (Ettinghausen) usci commosso da quelle sale, salutando gli uomini là adunati con queste parole: «Addio, brava e valorosa gente! „ In quel giorno si combattè gagliardamente dagli archi di Porta Nuova, dal Conservatorio, dal ponte di Porta Romana, nelle adiacenze del magazzino di Sant'Apollinare, e qua e là lungo tutta la periferia della città contro la truppa accampata alle porte, o che scorrazzava sui ba- stioni. 21() 21 marzo. Resi più animosi dai successi riportati nei .riorni precedenti, i milanesi nel quarto giorno presero l'offensiva dappertutto, rivolgendo spe- cialmente i loro sforzi a cacciare gli austriaci dai posti che ancora occupavano nella parte della città segnata dalla fossa interna. Il locale del genio, che sorgeva allora sull'a- rea dove esiste oggi la Cassa di Risparmio, fu preso dopo parecchie ore di combattimento. Là perdette la vita il prode dei prodi , Au- c^usto Anfossi, e la vittoria fu dovuta special- mente ad uno sciancato, che viveva di questua, Pasquale Sottocorno, il quale, non curando le fucilate che i soldati facevano dalle finestre, at- traversò due volte la via per appiccare il fuoco alla porta dell'edificio. I soldati che avevano difeso ostinatamente quel posto erano italiani. Insieme ad altre mi- «liaia di loro compagni, che abbandonarono nei oiorni seguenti in Milano, a Cremona e altrove fé insegne austriache, essi avrebbero combat- tuto con altrettanto valore per la causa italiana, se i governi insurrezionali l'avessero voluto. Anche il magazzino di Sant'Apollinare, in vicinanza al ponte di Porta Romana, difeso strenuamente da una cinquantina di croati, tu conquistato dopo un vigoroso assalto, nel quale gl'insorti fecero uso di due vecchi cannoni, tolti dal museo di casa Annoni. Questi ed altri fortunati successi venivano di tratto in tratto annunciati alla città con brevi manifesti. Uno di questi diceva: 217 « Prodi, avauti ! La città è nostra ; il nemico si raccoglie sui bastioni per avvicinarsi alla ritirata. Fa- tegli premura ; tormentatelo senza rijioso... Le truppe straniere dimandano tregua ; non lasciate tempo a discorsi. Coraggio! « Finiamola per sempre ». E un altro : « — L 'Europa parlerà di Voi ; la vergogna di tren- t'anni è lavata. « Viva l'Italia! Viva Pio IX ». Le diverse fasi della lotta suggerivano ogni giorno nuovi espedienti e nuovi modi di comu- nicazione e d'informazioni. Tali furono i pal- loni aereostatici , di cui si fece allora uso per la prima volta nelle lotte di popolo, per man- dare notizie della battaglia agli amici di fuori; tali gli osservatori stabiliti sull'alto dei cam- panili per esplorare i movimenti del nemico. Le relative notizie si calavano rapidamente al basso, avvolte in anelli scorrenti sopra filo di ferro, e venivano recate al Consiglio di guerra da giovanetti, che facevano da fattorini di posta. In uno dei bollettini mandati fuori coi pal- loni volanti, il Consiglio di guerra diceva : « Fratelli ! la vittoria è nostra ; il nemico in ritirata limita il suo terreno al Castello e ai bastioni ; strin- giamo una porta fra due fuochi e abbracciamoci ». E di fuori, dalle città vicine, dalle borgate e dai villaggi, uomini d'ogni classe rispondevano animosi all'appello di Milano. « Sopra una fascia di terreno di circa 12 miglia (lasciò scritto un testimonio) l'insurrezione era oltre ogni credere spettacolosa e imponente. Le campane suonavano a stormo ; il popolo guidato dai possidenti, dai fittaiuoli, da preti e dalla gioventù, correva sotto le mura della sua Milano per soccorrerla. Bande di 218 contadini dovunque s'incontravano ed era nno strin- ffcrsi l'un l'altro, gridando Viva Milano! Viva V Ita- lia !, elio ci rapiva r.iniiuo di moraviglia e di giu- bilo ». Molti brianzoli e lecchesi, dopo avere disar- mato a Monza i soldati del presidio, erano stati condotti per la via ferrata fin quasi sotto le mura dal direttore della ferrovia, Borgazzi, il quale, valorosissimo, era anche riescito a pene- trare in città. Col Consiglio di guerra egli s'era messo d'accordo per un assalto all'indomani di dentro e di fuori; ma l'indomani, mentre stava per salire sulle mura alla testa delle sue squa- dre, fu ucciso. Radetsky, che vedeva la sua posizione farsi ogni ora più difficile, chiese quel giorno di nuovo, a mezzo dei consoli, un armistizio, que- sta volta di tre giorni, ma fu nuovamente re- spinto. Attendeva ancora dai consoli la risposta, quando alle due del pomeriggio Radetsky, nel suo rapporto al gen. Ficquelmont, scriveva; » Ija città (T Milano è sconvolta dallo fondamenta: sarebbe diffìcile il farsene un'idea. « Non centinaia, ma migliaia di barricate ingom- brano le vie;- e il partito spiega nell'esecuzione delle sue misure una prudenza e un'audacia, che palesano che direttori militari prestati dall'estero stanno a capo dell'insurrezione. La natura di questo popolo mi sembra quasi per incanto trasformata : il fanatismo ha invaso ogni età, ogni ceto, ogni sesso ». Di « direttori militari» venuti dall'estero non ce n'era neppur uno; il « fanatismo » che tutti aveva invaso, non era che il ben maturato e fermo proposilo di finirla a qualunque costo colla dominazione austriaca. 219 99 z marzo. • Al mattino del quinto giorno un avviso del Municipio diceva : « L'armistizio offerto dal ne- mico fu da noi rifiutato, ad istanza del popolo elle vuol combattere »; poi aggiungeva : « Que- sto annunzio vi vien fatto dai sottoscritti, co- stituiti in governo provvisorio , che reso neces- sario da circostanze imperiose e dal voto dei combattenti, vien così proclamato ». Intende- vano come voto dei combattenti la lista dei nomi ch'era stata preparata all'alba del 18 dai promotori dell'insurrezione in casa del De Luigi. Vedendo in molti di quei nomi i figli o i nipoti di patrizi che nel 1814 avevano chiamato gli austriaci in Milano, Carlo Cattaneo già presa- giva nulla di bene pel futuro; ma eccitato a prendere egli la direzione (ìel movimento con uomini più risoluti, non volle; neppure si prevalse di esser membro del Comitato suc- cesso al Consiglio di guerra, per volgere all'in- surrezione tutte le energie di cui il popolo era allora animato. Dopo dieci giorni si ritirò da ogni ufficio, appunto perchè non aveva fiducia negli uomini del Governo provvisorio, né in Carlo Alberto, chiamato a capitanare la guerra di liberazione. In realtà in quei giorni Cattaneo aveva fatto più di quanto l'indole sua e la natura dei suoi studi comportavano. Se avesse avuto animo rivoluzionario, avrebbe compreso che il ritirarsi in circostanze cosi straordinarie era debolezza e colpa; avrebbe sentito che in rivoluzione il potere è di chi più osa, e sa di avere per sé la fiducia dei più animosi. 220 Disgraziatamente, mancando Cattaneo, non vi fu nessun altr'o che avesse mente e animo pari alle circostanze straordinarie del mo- mento. Mentre tanta parte della popolazione mila- nese e lombarda dava prova di cosi grandi energie, da cui tutto si poteva aspettare, non vi fu alcuno che sapesse raccoglierle in fascio e dirigerle a completa vittoria. Disgraziatamente Garibaldi era lontano, e la rivoluzione italiana non ebbe alcun Moltke, * * * In quel quinto giorno sapendosi che gli au- striaci erano allo stremo di viveri, estenuati di fatiche, e che non mancava più che un piccolo sforzo per costringerli ad abbandonare la città, gli strateghi del Comitato di guerra desig;narono la porta Tosa, perchè più lontana dal Castello, come l'obbiettivo di cui bisognava ad ogni co- sto impadronirsi. E là si combattè una vera battaglia, che co- minciata alle due di notte, continuò senza tre- gua fino a sera. In quel combattimento furono usate per la prima volta le barricate mobili, formate da fa- scinoni rotolanti, che spingendosi innanzi lascia- vano in molta parte al coperto i tiratori. Si adoperarono anche due cannoncini, espressa- mente fusi il giorno prima da fonderie private. Si combatteva anche dalle finestre delle case del Corso e dalle vicine ortaglie, mirando ai bastioni, di dove venivano i rinforzi alla truppa accampata al dazio. Più volte il comandante di quella zona rin- novò con truppe fresche il combattimento, ma salvo un momento d'incertezza verso mezzo- 221 giorno, in cui il nemico aveva messo in batteria sette pezzi di cannone, le barricate mobili, ben- ché fulminate dall'artiglieria e dalla fucileria, venivano lentamente, ma continuamente spinte innanzi. L' ardore del combattimento spingeva i più animosi a staccarsi talvolta dalle barricate per combattere all'aperto, e parecchi pagarono colla vita quella loro noncuranza. Alle due Manara scriveva al Comitato : «Siamo all'ultima casa; la uostra band'era vi sta sventolata. Avremmo già vinto, se un poderoso rin- forzo di linea e di cannoni non fosse in questo punto arrivato.,., scarseggiano mollo le munizioni da fucile, mandatecene: vinceremo o moriremo. » Era già sera, quando, dopo un vivo fuoco da trenta barricate mobili, facendosi da una schiera dei più valorosi, impeto sugli austriaci, dira- dati da gravissime perdite, li misero in fuga. Aperta la porta, ch'era semichiusa, Manara e pochi altri si avanzarono fino al Cimitero. Non trovando nessuno, fecero ritorno sui loro passi. Padroni della porta, per la cui presa tutto il giorno s'era combattuto, ed era costata tanto valore e preziose vite, nessuno crederà che. appiccatovi da Manara il fuoco, non vi fu la- sciata alcuna scorta per sua difesa. Lieti della vittoria — che cessava di essere tale dal momento che si rinunciava a conser- vare l'acquisto fatto — Manara e tutti i suoi se ne tornarono in città. Anche la Porta Coraasina era stata presa in quella medesima sera coli' aiuto dei lec- chesi e brianzuoli. pur essa perduta poco dopo. Era rimasto però in potere degli insorti un lungo tratto dei bastioni tra Porta Ticinese e Vercelliua. 099 La cerchia che da cinque giorni teneva chiusa la città era dunque rotta, e Milano poteva in quella notte ricevere o mandar fuori quanta gente voleva. Che in quella notte Radetsky avrebbe effet- tuata la sua ritirata dal Castello molti in Milano dovevano sa[)erlo. Dei preparativi della par- tenza gli abitanti del quartiere di San Calocero avevano avuto notizie precise, fin dalle ore cin- que, da pn drappello di soldati italiani, i quali, appunto per darne alla città la buona novella, erano fuggiti poco prima dal Castello; lo sapeva il Comitato di Casa Borromeo, a cui quei soldati — testimonio lo scrivente — furono diretti. Non potevano ignorarlo i membri del Comitato di guerra, che in un suo manifesto fin dal mat- tino aveva annunciata come sicura per l'indo- mani la liberazione della città. Coir entusiasmo che tutti animava per le ri- portate vittorie, colle migliaia di fucili trovate nei magazzini e nelle caserme ch'erano in mano dei cittadini, non era difficile formare in quella sera squadre volanti , le quali, lanciate fuor delle mura e condotte da abili capi, potessero prevenire l'esercito di Radetsky sulle vie con- ducenti alle fortezze. Sollevare tutti i paesi non ancora insorti, portando dovunque il lieto annuncio della vit- toria di Milano, tagliare ponti e strade, allagare le campagne circostanti, far massa di armati sui punti dell'Adda dove il nemico avrebbe tentalo il passaggio, non era impresa difficile, dacché a quell'ora quasi tutto il contado intorno a Milano era pieno d'armati, e un forte contingente po- tevano darne Monza e Bergamo. Pizzighettone e Cremona, libere a quell'ora di soldati stra- nieri ; senza contare Como, che, dopo nutriti 223 combattimenti, aveva fatto prigioniera tutta la guarnigione, e Brescia, libera anch'essa in se- guito a capitolazione del comandante il pre- sidio. Se dopo avere prevenuto il nemico sulla sua linea di ritirata, nel modo qui accennato, si fosse pensato cogli altri armati rimasti in città a formare squadre d'inseguimento, non appena l'uscita di Radetsky dal Castello fosse stata se- gnalata, non è improbabile che, estenuato dalla fame e dalle fatiche, sgomentato dalle batoste toccate, preso fra due fuochi, l'esercito austriaco arrivato all'Adda sarebbe stato costretto a ca- pitolare. Quando si pensa che Melegnano tentò da solo e senz' armi di arrestare tutto 1' esercito di Radetsky dopo l'uscita da Milano, è facile im- maginare ciò che di esso sarebbe avvenuto se avesse dovuto effettuare la sua ritirata in mezzo a paesi tutti sollevati, e combattere inposizioni a lui sfavorevoli contro migliaia d'armati, accesi di patriottico entusiasmo, assalito di fronte, ai fianchi e alle spalle. Ciò che accadde dodici anni dopo nella cam-. pagna dell'Italia xMeridionale, a Soveria Manelli, dove il gen. Ghio si arrese con diecimila uo- mini all' avanguardia del generale Garibaldi, dopo aver veduto tutte le Calabrie in armi; ciò ch'era accaduto nella guerra di Spagna al gene- rale Dupont. costretto a capitolare in aperta pianura davanti a schiere d'insorti, sarebbe toccato di buona o mala voglia al maresciallo Radetsky, che in tutti i cinque giorni non aveva mostrato né la sapienza del generale, né l'in- trepidezza dell'eroe. La sua capitolazione, venuta subito dopo quella del maresciallo Zichy a Venezia, avrebbe 224 posto fine alla guerra, o assicuratone il miglior esito in tempo brevissimo. Sarebbe anche ba- stata la risolutezza dei milanesi a inseguire l'austriaco fuori della città, per decidere Carlo Alberto a rompere gli indugi, e a mandare im- mediatamente sulle traccle del nemico un paio (li divisioni. Finita cosi la guerra di liberazione in pochi giorni, le guerre del 1859 e del 1866, e forse pure quella del 1870-71, sarebbero state risparmiate all'Italia e all'Europa. 1 destini d'Italia sarebbero forse stati perciò un po' diversi di quelli che accompagnarono la sua politica unificazione, ma la sua indipendenza avrebbe avuto un'in- crollabile base, perchè avrebbe avuto per bat- tesimo le più belle vittorie di popolo. Ciò per colpa di tutti non avvenne. Si comprende come i monarchici del governo provvisorio, per assicurare a Carlo Alberto tutto il merito della finale vittoria, lasciassero deli- beratamente spegnere nell'inerzia tutto l'ardore popolare; non si comprende come i repubbli- cani, che di quell'inerzia fecero un capo d'ac- cusa ai monarchici, non abbiano neppure tentato di chiamare intorno ai più prodi i molti armati che Milano contava nell'ultimo giorno, per con- tinuare la grande lotta anche fuor delle mura. Dopo cinque giorni di fiera lotta e colla vit- toria già in pugno, la stanchezza, il sonno, il bisogno di riposo s'impossessarono dei com- battenti,proprio nel momento in cui si trattava di compierla. Parrà oggi a tutti incredibile, che un esercito di circa ventimila uomini, disorganizzato, affa- mato, avvilito, abbia potuto sfilare lentamente, tra le ore undici e le due di notte, lungo i bastioni e la via di circonvallazione, davanti a una città di 225 quasi trecentomila abitanti, dov'erano più mi- gliaia d'armati, senza essere molestato da al- cuno, e senza che i Comitati, i combattenti, la cittadinanza abbian fatto le viste di accor- gersene. L'indomani in mezzo all'esultanza della popo- lazione per r avvenuta liberazione — in gran parte turbata dalle scoperte che mano mano facevansi dei barbari eccidi, fra cui di fa- miglie intere abbruciate , che i soldati au- striaci, prima d' andarsene, avevano lasciato come loro ricordo a Milano — un avviso del Comitato di guerra, che pochi probabilmente lessero, annunciava la formazione dell'Esercito delle Alpi, e invitava i combattenti a inscri- vervisi. Soltanto il 24 marzo, due giorni dopo la par- tenza degli austriaci, usciva dalle porte, per inseguirli, la colonna comandata da Luciano Manara. La formavano 127 volontari, «salutati,» scrisse Emilio Dandolo nelle sue Annotazioni storiche, * dagli applausi e dall'ammirazione universale. » All'ammirazione pei pochi che partivano, si univa probabilmente in molti, in quell'ora, un sentimento di mortificazione al pensiero delle migliaia che restavano. 15 226 La rivoluzione di Venezia Il 22 marzo 1848, che fu giorno di liberazione per Milano, lo fu anche per Venezia. Tranne la concordia negli animi e il forte proposito di tutte le classi di finirla colla dominazione au- striaca, nessuna somiglianza fra le due solle- vazioni. A Milano l'insurrezione fu ammirevole, perchè un popolo, per natura mite e pacifico, venne a cimento con un forte e agguerrito esercito, e, quasi senz'armi, senza capi, senza direzione, dopo una serie di combattimenti durati cinque giorni, lo costrinse ad abbandonare la città; ma fu lotta dolorosa, considerando le molte vittime che costò alle due parti. A Venezia, dopo che il popolo fu sceso in piazza, parve che tutto fosse diretto da una mente superiore, sopra un disegno prestabilito, e la insurrezione fu là anche più meravigliosa, perchè quasi senza spargimento di sangue ot- tenne più decisiva vittoria, sicché terminò in una completa rivoluzione. La mattina del 17 marzo, non appena si spar- sero in Venezia le notizie dei moti di Vienna, e delle imperiali promesse che n'erano state la conseguenza, una grande eff'ervescenza s'im- padroni del popolo, che recatosi in folla sotto le finestre del governatore, chiese a grandi grida la liberazione di Manin e di Tommaseo, i quali da più di due mesi erano imprigionati, 227 per essere stati con liberi accenti eccitatori del sentimento patriottico. Il governatore, conte PalfTy. voleva guada- gnar tempo, finché gli fossero giunte istruzioni precise da Vienna, ma incalzato dalla marea popolare, che sempre più ingrossava, diede or- dine per la scarcerazione. Manin e Tommaseo furono a spalle d'uomini portati in Piazza S. Marco in mezzo a frene- tiche acclamazioni. Tutti avevano il cappello o l'abito già a- dornato della coccarda tricolore , e sui tre stendardi, che sorgono rimpetto alla basilica di S. Marco, vennero innalzate tre bandiere i- taliane e tagliate le corde per non lasciarle più togliere. L'entusiasmo del popolo era tale , che molti avrebbero voluto cominciar subitola lotta con- tro il presidio austriaco; Manin se ne accorse e, arringando il popolo, cercò di frenarli : « Non vogliate dimenticare (egli disse) che non vi può essere libertà vera e durevole dove non è ordine, e che dell'ordine aoì dovete farvi gelosi custodi, se volete farvi degni di libertà.... « Vi hanno per altro tempi e casi solenni, segnati dalla provvidenza, nei quali l'insurrezione non è pure diritto, ma debito ». Le grida entusiastiche non cessarono finché Manin, portato di nuovo in trionfo fino alla casa sua, si gettò, mezzo morto di fatica e di emozione, nelle braccia della figlia. Intanto il governo volendo far sgombrare la piazza, dove sempre più crescevano l'affolla- mento e l'agitazione, mandò compagnie di gra- natieri e di croati. Vi furono cariche di questi ultimi , per cui due persone rimasero leggermente ferite. 228 La mattina (iel 18, ricominciando l'agitazione, il governatore Palffy, cli'era in fondo un buon uomo, mandò un suo messo a Manin, pregan- dolo di intromettersi per calmare la popola- zione. Manin, anclie per consiglio di notabili cittadini ch'erano intorno a lui, rispose che non poteva farsi garante della pubblica tran- quillità, se non a queste condizioni : il ritiro delle truppe alle loro caserme e la pronta for- mazione d'una Guardia civica. A queste condizioni il governatore non volle arrendersi, perchè, dichiarava, l'istituzione della Guardia civica era cosa di attribuzione del vi- ceré, e, nonché far ritirare le truppe, ne mandò un numero maggiore di quelle del giorno in- nanzi sulla piazza San Marco, dove facevansi sempre più minacciose le patriottiche dimo- strazioni. Visto che tra la folla si dava mano a smovere il selciato della piazza per farne armi contro i soldati, e già cominciavano a volar pietre contro la truppa, a questa fu dato l'ordine, prima di respingere a baionetta il popolo fin sotto le Procuratie, poi di far fuoco. Rimasero morti quattro cittadini e sette gravemente feriti. Ne consegui una grande esasperazione nel popolo, e una lotta generale sembrava prepararsi, per- chè in molti quartieri già si dava mano a in- nalzare barricate. Siccome però i cittadini non avevano armi, e i punti strategici erano già occupati dalla truppa, la lotta sarebbe proba- bilmente finita colla peggio dei cittadini. Ma da questo momento la sollevazione cessa di essere un prodotto del solo impeto popolare, perchè pochi uomini, in cui era ancor vivo il senno politico degli antichi reggitori della veneta re- pubblica, ne prendono la direzione, proponen- 229 dosi di condurla a buon porto, fidenti nella forza morale che dà la difesa di una grande e giusta causa. Daniele Manin, sapendo che la prima condi- zione per vincere è quella di non darsi vinti, conosciuto il rifiuto del governatore alle con- dizioni da lui poste, recossi con alcuni amici al Municipio, eccitandolo perchè si chiedesse di nuovo al Governatore, nell'interesse del- l'ordine pubblico, la formazione della Guardia civica. La proposta fu accolta. 11 podestà. Giovanni Correr, recossi immediatamente insieme alla Congregazione municipale dal governatore, per ottenerne la concessione, che aveva rifiutato al mattino. Intanto, per non perder tempo, in Municipio, alcuni cittadini preparavano il regolamento per la composizione della Guardia civica. Il governatore, dopo molta resistenza, finì per consentire alla istituzione d'una Guardia civica, formata di sole duecento persone, il cui rego- lamento dovesse essere fatto dalla Direzione di Polizia. Il primo aggiunto di questa, recatosi al Muni- cipio per dettare questo regolamento, si accorse che il numero delle Guardie civiche, che là si registravano e si volevano armare, oltrepassava di molto quello voluto dal governatore e ne fece rimostranze al Manin, che dichiarò che ne stavan pronte duemila. « E per armarle? » chiese l'aggiunto. - « Ci penseremo noi » rispose Manin. - e Dunque voi volete costringerci a mettere la città in stato d'assedio », soggiunse l'aggiunto- - «Io son qui (replicò Manin) per l'ordine del paese, e se la polizia frappone ostacoli, mi metterò io stesso alla testa del movimento, e 230 voi sarete la causa della rivolta, che tanto te- mete». Queste parole, proferite con accento e gesti risoluti, atterrirono la polizia, la quale do- vette assistere impotente all'armamento di più niigliaia di cittadini. Il Municipio diede subito avviso alla cittadi- nanza che stava organizzando la ottenuta « prov- visoria » Guardia civica, e nel darne annuncio raccomandava * la maggior tranquillità » per « dimostrare l'utilità della novella istituzione » e per esserne degna. Dal suo canto Manin, scelta una pattuglia di coloro sui quali poteva più contare, percorse, alla testa di essa, alcune delle principali vie. Il popolo vedendoli armali, si diede a gridare esultante : Viva Manin, Viva i nostri salvatori ! Ma impostogli da Manin di non compromettere, neppure con evviva, la situazione che si veniva creando, il popolo si mantenne tranquillo, non cessando più d'allora in poi di mostrare nel senno di Manin la maggiore fiducia. Dopo la mezzanotte di quel medesimo giorno, 18, arrivò inaspettato un piroscafo da Trieste, inviato dai patriotti di quella città, per recare a Venezia l'annuncio ufficiale della concessa Co- stituzione. La moltitudine si recò allora in folla sotto le finestre del governatore, il quale, venuto al balcone, lesse il dispaccio ufficiale, e aggiunse parole di simpatia a Venezia, di cui si gloriava di chiamarsi cittadino. L'entusiasmo per quella notizia fu grande nella città, e molte piazze e case cospicue, benché fosse notte avanzata, fu- rono in segno di festa illuminate. I tre giorni seguenti furono occupati nell'or- ganizzazione della Guardia civica, e nel pren- dere pacificamente possesso per essa dei posti più importanti. 231 Per confessione della stessa Gazzella Ufficiale, che usciva in quei giorni, le Guardie cittadine, il cui numero aumentava d'ora in ora, facevano il loro servizio s^ con disciplina di veterani.» Sentendosi impotente oramai a limitarne il numero, il Governo esortò i suoi impiegati ad arruolarsi nella Guardia civica, alla quale fece avere dall'Arsenale marittimo 200 sciabole, e da quello di terra 400 fucili. Intanto l'idea di approfittare delle circostanze straordinarie del momento per far rivivere l'antica Repubblica cominciava a entrare in molti cervelli, e, per venire ad un'energica ri- soluzione, parecchi cittadini si rivolsero al Mu- nicipio, altri a Manin. Questi fin dai primi momenti della sommossa aveva concepito il suo disegno : impadronirsi del grande Arsenale, sapendo che la massima parte degli operai che vi lavoravano, pieni di amor patrio, fremevano del desiderio di libe- rarsi del comando e dell'ufficialità austriaca. La mattina del 22, Manin, in compagnia del figlio Giorgio e con un gruppo di Guardie ci- viche, si incamminò verso quella volta. Gli operai dell'Arsenale avevano ucciso poche ore prima il colonnello Marinovich, uomo odia- tissimo pel suo eccessivo rigore, il quale già salvato il giorno prima dalle guardie civiche del sestiere, volle in quel mattino recarsi di nuovo nell'Arsenale, quasi a sfida degli operai, esasperati contro di lui, pei suoi brutali trat- tamenti. Prima che vi arrivasse Manin coi suoi, erano già penetrate nell'Arsenale due grosse pattuglie di guardie civiche, condotte una da Giuseppe 232 Giuriati, capo di stato maggiore della Civica, l'altra da Olivieri, capo battaglione. Vi arrivava contemporaneamente l'ammiraglio Martini, il quale protestando perchè da parte della marina non era stato preso nessun provvedimento contro la città, fu dalla guardia civica dichia- rato prigioniero. Il Giuriati se ne fece conse- gnare la spada. Il Manin, presi con se due capi delle guardia civica e un ufficiale del genio, fece un giro di riconoscimento nell'arsenale. Finito il suo giro, Manin fece suonare la cam- pana che chiama gli operai, e tutti risposero al suo appello. Aperta la sala d'armi, si presero i fucili per armare gli operai dell' Arsenale e le guardie civiche, armate fino allora quasi tutte di sola sciabola. Manin arringò allora civici ed arsenalotti, esortandoli a mantenersi ordinati e dignitosi, per mostrarsi degni della libertà che si stava conquistando. Il maggiore Boday , comandante un corpo di fanteria di marina, formato di italiani e dal- mati, che ordinò di far fuoco contro le guar- die, non fu obbedito, ed egli stesso fu fatto prigioniero. Uscito dall'Arsenale, dopo averne affidato il comando a uomo fidato (Graziani), Manin, se- guito da una parte delle Guardie civiche e da gente d'ogni classe, si avviò alla Piazza San Marco. Là giunto, al popolo affollato, ebbro d'entu- siasmo per la notizia sparsasi della presa del- l'Arsenale, Manin cosi parlò : « Noi siamo IìIxmì, e possiamo doppiamente glo- linifi rli esserlo, giaceliè lo siamo senz.a aver versato 233 goccia né del nostro sangue, né di quello dei nostri fratelli ; perchè io considero come tali tutti gli uo- mini. Ma non basta avere abbattuto l'antico governo ; bisogna altresì sostituirne uno nuovo, e il piìi adatto ci sembra quello della Repubblica, che rammenti le glorie passate, migliorato dalle libertà presenti. Con questo non intendiamo già separarci dai no- stri fratelli italiani, ma anzi formeremo uno di quei centri, clie dovranno servire alla fusione successiva, e poco a poco di questa Italia in un sol tutto. Viva dunque la BepubbUca .' Viva ìa Libertà ! Vira San Marco. (1) Acclamazioni frenetiche e migliaia di voci fecero eco a quegli evviva. Quasi nella medesima ora si compiva nel pa- lazzo del governo un fatto di veramente capi- tale importanza. 11 cittadino Mengaldo, quale comandante della Guardia Civica recatosi in persona dal Gover- natore, gli aveva dichiarato che per ridare alla città la desiderabile tranquillità, occorreva che tutte le armi fossero messe nelle mani dei cit- tadini. 11 governatore Palffy, protestando che quanto più egli largheggiava nelle concessioni, tanto più crescevano le esigenze, pregò il Comitato Municipale di recarsi da lui. Al Municipio tutti compresero che il mo- mento era supremo, e fu nominata una depu- tazione, che fu composta di due assessori, di due negozianti, dell'avvocato Avesani, del co- mandante la Guardia civica e del podestà pre- sidente. Presentatasi al governatore, conte PalfFy, la (l) Documenti e scritti autentici lasciati da Daniele {Ma- nin — Venezia Tip. Antonelli 1877. (V. pag. 113-lUi Deputazione lo trovò circondato dal suo Con- siglio di governo. Pallfy la ricevette con altero cipiglio ; rim- proverò la rappresentanza municipale di es- sere essa medesima istigatrice del popolo, spar- gendo ingiuste accuse contro li governo. L'avvocato Avesani, uomo d'alto intelletto e di forte animo, interruppe quel discorso, di- cendo : Siamo noi qui venuti per ricevere un rimprovero o per una necjoziazione ? Il governatore indispettito replicò che non parlava coll'avvocato Avesani, ma col podestà di Venezia. Il podestà rispose che la deputazione era ve- nuta coll'incarico di esporre le condizioni es- senziali per il ristabilimento dell'ordine, ed in- vitò l'avv. Avesani ad esporle in nome dei suoi colleghi. Allora l'avv. Avesani riprese la parola, e disse che il momento era straordinario; che non era più tempo da perdere, né da discutere sui mo- tivi del moto del paese. « Ciò che importa (ag- giunse) è di venir subito al concreto, e la do- manda concreta è questa : Il governo austriaco cede il potere ». — Se è così ("rispose indignato il governa- tore) io rimetto tutti i poteri nelle mani del governatore militare, e la città avrà a fare con lui. Chiamato allora il conte Zichy , comandante della città e fortezza di Venezia, ch'era già in una sala vicina, il conte Palffy rimettendogli ogni sua autorità, gli raccomandò che « nel- l'esercizio dei suoi rigorosi doveri volesse ri- sparmiare il più possibile questa bella e mo- numentale città •», verso la quale egli protestava la più viva affezione. 235 Udito che la deputazione chiedeva il ritiro del governo, il conte Zichy lo disse impossibile Soggiunse ch'egli pure amava Venezia, ma che avrebbe fatto rigorosamente il dover suo: Al che, l'Avesani: « Dunque è un rifiuto; or io vado a riferirlo al popolo, e il sig. Tenente Maresciallo sarà responsabile della strage im- minente ». Il conte Zichy, sbigottito, volle trattenere l'oratore, pregandolo di moderarsi. L'Avesani esclamò che la moderazione era impossibile, e che le truppe austriache dove- vano partire, e le italiane restare. — Impossibile ! — esclamò il Tenente Mare- sciallo — piuttosto ci batteremo. — Ebbene, ci batteremo — replicò risoluto l'Avesani ; e accennava a partire. Zichy lo trattenne nuovamente, dicendogli che ne andava della sua testa. « Nelle presenti circostanze (risposegli im- mantinente l'Avesani) chi non arrischia la pro- pria?» e aggiunse che non si potevano aspet- tare ordini di Vienna; che si era perduto ormai troppo tempo; che ogni ora, ogni minuto po- teva essere decisivo e portare la strage. La for- mola della domanda (conchiuse) era spartana, e spartana doveva essere la risposta. Davanti a cosi risoluto linguaggio, il Mare- sciallo non seppe più resistere, e accettò a una a una tutte le condizioni che gli furono im- poste. A tenore delle medesime « onde evitare lo spargimento di sangue », il conte Palffy, governa- tore delle Venete provincie, nell'atto di dimet- tersi dalle sue funzioni, rimettendole nelle mani del conte Zichy, comandante della città e for- tezza, gli raccomandava caldamente di « voler avere riguardo a questa bella monumentale città, verso la quale egli ha sempre professato la più viva alTezione e il più leale attaccamento ». A sua volta il conte Ziclìy rimetteva il governo mili- tare-civile nelle mani del governo provvisorio. e intanto nei membri della Commissione sotto- scritti alla capitolazione; le truppe austriache dovevano abbandonare la città e tutti i porti, restando a Venezia le truppe tutte italiane; ri- manere in Venezia tutto il materiale da guerra. Il conte Zichy dava inoltre la sua parola d'o- nore di restare per ultimo in Venezia a gua- rentigia dell'esecuzione dei patti della capito- lazione. Così Venezia era libera senza colpo ferire. Giustamente una corrispondenza pubblicata il 2 aprile 1848 nella AUgemeine Zeitiing, gaz- zetta d'Augusta, diceva che la rivoluzione di Venezia era stata, per opera dei capi del mo- vimento, un vero capolavoro di senno politico. 11 23 marzo davanti a tutta la Guardia civica schierata sulla piazza San Marco, e dopo la benedizione del tricolore vessillo fatta dal Pa- triarca, il coniandante la Guardia civica, Men- galdo, faceva la j^roclamazione. accolla da stre- pitose acclamazioni delle guardie e del popolo, del Governo provvisorio della Repubblica Ve- neta, con Daniele Manin, presidente. 237 La Guerra di Lombardia - 1848 La storia della liberazione di Venezia e delle vittorie incruenti che la seguirono nel Veneto, sembra, a leggerla a tanti anni di distanza, un racconto di fate. Era bastato il fermo linguaggio di pochi uo- mini a strappare al maresciallo Zich}^ quella capitolazione, che dava Venezia e tutti i forti della laguna in potere del Municipio. Avutane notizia il tenente-maresciallo Ludolf il 23 marzo in Treviso, cedette il comando della città e provincia al governo provvisorio colà costituitosi e ritiravasi colle sue truppe a Trieste ; lo seguiva nel giorno medesimo la guarnigione di Belluno. Il gen. Auer, comandante la città di Udine, ne segui l'esempio, ritirandosi colle sue truppe ai confini dell'Istria. Capitolarono del pari, davanti ai comis- sarì inviati dal governo provvisorio di Vene- zia, i comandanti delle fortezze di Osopo e Palmanova. In quest'ultima il vecchio generale Zucchi, che vi stava rinchiuso fin dal 1831 pei fatti di Romagna, da prigioniero ne divenne il comandante. Il 24 le truppe austriache sgombravano Ro- vigo. Tre battaglioni italiani che facevano parte delle guarnigioni di Rovigo, di Treviso e di Udine avevano fraternizzato col popolo. 238 Il gen. D'Aspre, che aveva riunito in Padova da 9 a 10.000 uomini, avutone ordine da Ra- detskj', si mise in marcia il 24 verso Verona, dopo aver vuotata la cassa comunale di Pa- dova, ed essersi fatto versare, nella sua sosta a Vicenza, lire 42.000 austriache dal Comitato colà costituitosi. Anche in Lombardia, Cremona e Brescia si trovarono libere in seguito a regolari capitola- zioni, ma queste, anziché colle buone come nel Veneto, furono ottenute a Cremona, in seguito alle disposizioni prese dal popolo per venire a battaglia, a Brescia dopo una breve ma fiera lotta. Il 24 marzo, in conseguenza delle riportate vittorie della insurrezione e delle avvenute ca- pitolazioni dei presidi austriaci, tranne le for- tezze del quadrilatero , la bandiera italiana sventolava in tutte le città e da tutte le torri di Lombardia e del Veneto, dal Ticino all'I- sonzo. D'un esercito, che il 18 marzo era forte di oltre 80.000 uomini, Radetzky, a cagione dei morti, dei feriti, dei prigionieri, dei disertori e delle avvenute capitolazioni, non poteva più disporre che di 25 o 26 mila uomini sotto il suo comando, dei 10 o 12.000 comandali dal ge- nerale D'Aspre, e di pressoché 10.000 altri, che presidiavano le quattro fortezze. Se all'entusiasmo che le prodigiose vittorie di quei primi giorni avevano desiato nelle po- polazioni, avesse corrisposto la costanza, colle schiere d'armati che dalle valli e dai monti af- fluivano alle città, colle guardie di finanza, coi soldati italiani, che avevano disertato le insegne austriache, colla gioventù animosa che in ogni città non attendeva che la voce d'un capo per 239 armarsi e marciare, ai 26.000 combattenti di Radetzky la sola Lombardia avrebbe potuto e dovuto opporre, se non i 100.000 uomini calco- lati da Pisacane, non meno di 50,000 armati. Un numero non minore potevano darne, non contando il Piemonte, le altre popolazioni ita- liane. Le notizie della insurrezione lombarda ave- vano destato in tutta Italia un fremito stra- ordinario. Con un'alzata di spalle Parma, Modena, Pia- cenza, s'erano liberate dei principi fantocci, che l'Austria non poteva più sostenere, e ave- vano battaglioni bene armati, che potevano es- sere pronti a varcare i confini. A Firenze, appena si ebbero le notizie di Vienna e di Lombardia, tutta la città si com- mosse. Il 21. gran massa di popolo accorse alla piazza del Granduca chiedendo armi. Il gonfa- loniere in nome del granduca annunciò che subito le truppe regolari avrebbero marciato verso le frontiere, e che i volontari si sarebbero fatti partire immediatamente con la milizia. La sera medesima un proclama del Granduca dava l'annuncio dell'ordine da lui dato per la partenza delle truppe, e dell'organizzazione « istantanea » dei volontari. « L'ora del completo risorgimento d'Italia (diceva quel proclama) è giunta improvvisa ; né può chi dav- vero ama questa patria comune, ricusarle il soccorso «he si reclama da lei »... A Siena, a Pistoia, a Lucca, dovunque, avve- nivano assembramenti, o si pubblicavano ma- nifesti acclamanti alla « guerra santa » e chie- denti armi. Da Pisa e da Livorno partivano il 22, alla 240 volta (li Lombardia quattro compagnie di linea e 800 volontari ; il prof. Giuseppe Montanelli, che molta parte aveva avuto nei moti anteriori, era fra essi. Eguale commozione negli Stati Pontifici, dove la gioventù ansiosa di partecipare alla grande lolla non el)be difficollà à forzar la mano agli uomini del governo. A Bologna popolani e studenti accorsero 1120 marzo alle caserme, per armarsi e partire. Una colonna di volontari, formata di stu- denti, di popolani, di guardie di finanza e di civici venne immediatamenle allestita, e la sera medesima, sotto il comando di Livio Zambec- cari, rischiarata da faci, salutata dalla popola- zione festante, mettevasi in marcia. Dopo due ore un battaglione civico, più forte di numero, comandato dal maggiore Bi- gnami, lo seguiva. Le due colonne pernottavano a Castelfranco, sul confine modenese. In Roma, date alle fiamme dal popolo le in- segne dell'Austria, si adunavano volontari, be- nedetti da sacerdoti, si aprivano sottoscrizioni per armarli; il governo, sotto la pressione del- l'opinione pubblica, decretava un « corpo di spedizione » e ne affidava il comando al pie- montese generale Durando. Questo corpo , forte di 12.000 uomini , era qualche giorno dopo a Ferrara. A Napoli, arso lo stemma dell'ambasciata austriaca, e costretto il re a cedere al generale commovimento, venivano aperte il 26 le liste dei volontari. Dacché l'Italia esisteva, non s'era mai veduto tanto entusiasmo in tutte le popolazioni, tanto fremito d'armi e d'armati, e tanto accordo fra 241 la gente colta e la gioventù d'ogni ceto in un unico pensiero: la cacciata dello straniero. Perchè a tanta fortuna d'Italia in quei giorni non corrisposero gli eventi posteriori? Come avvenne che fin da quei giorni l'esercito di Radetzky decimato, disorganizzato, avvilito, in mezzo a popolazioni infiammate d'amor patrio, marciando lentissimamente, potè portarsi in salvo entro il quadrilatero, e là riordinarsi, riprendere lena e coraggio, ricevere rinforzi, per passare a momento opportuno all'offensiva e vincere ? Della mutata fortuna i repubblicani addos- sarono tutta la responsabilità a Carlo Alberto e ai suoi partigiani. Le colpe di costoro furono infatti enormi, ammesse anche dagli storio- grafi monarchici, ma appunto per ciò non c'era alcun bisogno di addossar loro anche le colpe degli altri. Se fin dai principio i municipali di Milano, erettisi a governo, diedero a divedere che loro principale scopo era quello di smorzare l'en- tusiasmo del popolo, per lasciare a Carlo Al- berto tutto il merito delle vittorie, che da lui attendevano . toccava ai repubblicani di adoperarsi a tenerlo vivo, per trarne le forze necessarie al rapido e felice esito della lotta. Se Carlo Alberto colle sue inqualificabili len- tezze mostrava di non saper approfittare del disordine e dello scoramento, in cui doveva trovarsi l'esercito di Radetzky, per tagliargli la via alle fortezze, spettava a chiunque avesse compreso che in una guerra di popolo, per- dute nei primi giorni le occasioni propizie di vittoria non tornano più , di raccogliere il maggior numero possibile d'uomini, e portarli a contrastare al fuggente nemico il passaggio 16 242 (lei fiumi - minandone i ponti - clie dairA(iiia al Mincio tagliano la pianura lombarda. Nessuno ebbe animo da tanto. .Mantova era presidiata da tre battaglioni italiani, da uno squadrone di dragoni e da po- chi artiglieri. Una parte dei cittadini era ar- mata, ed ebbe in custodia più giorni alcune porte della città. Pochi uomini risoluti, che avessero voluto profittarne, divenivano padroni della città, e non vi furono; potevano entrarvi i battaglioni di Modena e di Bologna, ch'erano poco lungi, ma non si mossero. Le due colonne di Zambeccari e Bignami, del corpo di spedizione bolognese, ch'erano par- tite la sera del 20 da Bologna, dopo inutili marcie, vi fecero ritorno disordinate e slancile, per esservi riordinate. Il gen. Durando, che il 30 marzo era già a Ferrara, pensò di far ritorno a Bologna, dove la sua divisione, forte di 12 mila uomini, rimase parecchi giorni come paralizzata. Lo stesso ac- cadeva dei 7.000 toscani, condotti dal gen. Fer- rari, arrivati in quei giorni in riva al Po. Migliaia di alpigiani armati - il Pisacane li fa ascendere a 20.000 - eransi avviati verso Vi- cenza per dar mano alla cacciata degli austriaci; quel Comitato li rimandò alle native montagne. Inutile aggiungere che dei 20.000 soldati di- sertati dall'Austria nes.suno si die pensiero, sicché tutti furono ben lieti di tornare in seno alle loro famiglie. Allora si vide quanto ])oco giovi l'entusiasmo delle masse, cjuando manchino i capi che sap- piano ordinarle e guidarle. E si vide del pari che senza una buona preparazione il valore dei combattenti non basta per vincere. Dove la preparazione non avrebbe dovuto 243 mancare era in Piemonte, rappresentato da scrittori come la Prussia d'Italia, e il cui re era dai suoi partigiani proclamato quale primo e massimo campione della guerra d'indipen- denza, predicata come il porro unum della que- stione italiana. Carlo Alberto medesimo coi suoi discorsi privati, e facendo buon viso ad alcune dimostrazioni patriottiche, aveva favo- rito tale propaganda. Egli perciò fin dal gen- naio, dopo gli atti d'ostilità dei lombardi contro il governo austriaco, doveva sapere che la guerra, in seguito ad una sollevazione, poteva scop- piare da un giorno all'altro. Già s'è veduto che a Firenze la partecipa- zione alla guerra d'indipendenza fu proclamata dal granduca il 21 marzo. A Torino poteva esserlo anche prima. Il conte Arese portò la notizia dell'insurre- zione di Milano ai ministri del re e al re me- desimo la notte dal 18 al 19 marzo. Né il re né i ministri gli diedero promessa di soccorso. Nei di seguenti continuando a giungere no- tizie che in Milano il cannone infuriava e la lotta doveva essere terribile, il ritardo del go- verno a dar ordine all'esercito di passare il Ticino, lo metteva in pericolo nel suo paese medesimo. La stampa strepitava. Cavour medesimo stam- pava nel Risorgimento un articolo infuocato, che, più che un invito, era una fiera intima- zione al governo di agire. «L'ora suprema - « diceva Cavour - per la monarchia sabauda è •' suonata: l'ora delle forti deliberazioni, l'ora " dalla quale dipendono i fati degli imperi, le • sorti dei popoli. In cospetto degli avvenimenti • di Lombardia e di Vienna, l'esitazione, il dub- • bio, gl'indugi non son più possibili, essi sareb- 244 « bero la più funesta delle politiche.... Una sola « via è aperta per la nazione, pel governo, pel « re : La Guerra ! la guerra immediata e senza « indugio. V La popolazione dal suo canto, sempre più in orgasmo, si assembrava ogni dì sotto le fine- stre del palazzo reale, gridando: Al Ticino! al Ticino! Non ostante questi eccitamenti, Carlo Alberto prima di risolversi all'intervento, voleva un invito formale del governo provvisorio di Mi- lano, quando non era ancora costituito, e aveva mandato a quest'uopo a Milano il conte Mar- tini di Crema. Così si perdettero giorni pre- ziosi. Questa titubanza e questi scrupoli di Carlo Alberto, furono funestissimi; ma a un certo punto si comprendono. In una nota scritta il 15 marzo, quasi per farsi perdonare d'aver concesso ai suoi Stati una Costituzione, il gabinetto sardo scriveva al Cancelliere austriaco : " Il re desidera che S. M. l'imperatore d'Austria «riceva l'assicurazione che l'osservanza dei « trattati formerà sempre la base della sua po- « litica... «; e terminava esprimendoli desiderio del re di voler « raffermare ancor più i legami " d'amicizia che hanno unito fino al presente « i due Stati. « Queste dichiarazioni male si accordavano colla parte di campione della italica indipen- denza, che i partigiani di Carlo Alberto, egli evidentemente consenziente , gli avevano at- tribuito. Ora, messo nel bivio di rompere fede a quei trattati, il cui rispetto cinque o sei giorni prima aveva dichiarato di prendere a base della sua I 245 politica, o di mancare ai suoi doveri verso l'I- talia, non sapeva decidersi. Fu una grande sventura. Certo è che se due o tre reggimenti piemon- tesi fossero arrivati prima del 22 - come ne ave^^ano tutto il tempo - alle porte di Milano, per l'effetto immenso che la loro entrata in città avrebbe prodotto nella popolazione, la lotta sarebbe finita con una completa capitola- zione di Radetsky, come senza lotta capitolò a Venezia il generale Zichy. Una sola divisione che il 22 si fosse messa sulle traccie del fug- gente esercito austriaco, l'avrebbe costretto tutto quanto a deporre le armi. La possibilità di raggiungere il nemico nella sua ritirata, e, piombandogli addosso con truppe fresche, accese dall'entusiasmo che infiammava allora tutto il paese e sconfìggerlo, non era per- duta neppure nei dì seguenti, costretto com'era stato Radetzky di dare alle sue truppe, dopo tanti giorni di fatiche e di privazioni, un po' di riposo. Non c'era bisogno d'essere un genio di guerra, bastava aver letto poche pagine di storia delle campagne di Napoleone in Italia, e avere la volontà di vincere, per comprendere che .la ra- pidità delle mosse era in quei giorni condi- zione primissima di successo. E poiché la guerra è un male, anche quando è inevitabile e giusta, il miglior modo di af- frontarla è di farla breve e decisiva ; cosi si risparmiano vittime, e gli interessi della patria sono più presto messi d'accordo coi diritti del- l'umanità. Invece solamente il 26 marzo le prime truppe piemontesi - quelle del gen. Bes - sei batta- glioni, sei squadroni e una batteria passarono 246 ^ il Ticino a BolFalora, per arrivare a Milano il 27. Per comprendere l'insensatezza degli uomini del Governo provvisorio, che immaginavano facili e imminenti le vittorie, basta ricor(iare che il manifesto annunciante alla popolazione l'entrata in Milano di quelle truppe, cosi si chiu- deva: " Per conseguenza il governo provvisorio « invita tutti i cittadini a riprendere al più « presto, e possibilmente entro la giornata del "27 (lunedì) le ordinarie loro occupazioni, " aprendo botteghe e lavoratorii e tornando " all'operosa loro vita. „ Un decreto che avesse chiamato sotto le armi i giovani di due o tre leve, per combattere a fianco all'esercito piemontese, sarebbe stato as- sai più provvido di quell'inconsulto manifesto. La divisione Bes parti il 28 per Treviglio, ma senza l'ordine d'inseguire il nemico. Il re Carlo Alberto invece di mettersi sulle orme del nemico per la via più breve, passò il Ticino ed entrò in Pavia il 29 alla testa di tre divisioni. Al conte Martini aveva detto : " Io non entrerò in Milano prima di aver sconfitto gli austriaci ^i. Generoso il proposito, ma fu- neste le conseguenze che dovevano derivarne. E qui ci piace riportare ciò che scrive in pro|)OSÌto, in un libro ancora inedito sulle Cam- pagne dell'indipendenza e unità d'Italia, l'egre- gio e chiaro scrittore di cose militari, il professor Jacopo Dal Fabbro, più noto sotto lo pseudo- nimo di « Demetrio. « " Non a Pavia e a Lodi, bensì a Milano do- veva accorrere per primo il re alla testa dei suoi trecento carabinieri a cavallo, delle sue guardie, dei suoi bersaglieri, della parte più elefin ed appariscente del suo esercito. 247 •• Quivi soffermandosi appena per gli oppor- tuni accordi col Governo provvisorio, piantare il perno della sua seconda base di operazioni alla linea fluviale dell'Adda. Qui con un pro- clama vibrante di amor patrio incitare i lom- bardi a sorreggerlo nella lotta da essi così va- lorosamente iniziata, potendo la guerra a cui si accingeva il suo esercito divenire lunga ed aspra e difficile. " Allora si sarebbe vista la piccola brigata Bes stringersi d'attorno le improvvisate schiere dei corpi franchi di Arcioni, di Torres, dei Ti- cinesi e dei Comaschi. Allora il colonnello Alessandro Lamarmora, il migliore degli uffi- ciali piemontesi del suo tempo, incontrandosi con Manara e coi volontari della morte, avrebbe in poche ore convertito le sue quattro compa- gnie di bersaglieri in quattro bei battaglioni. " .... Né era il momento di sospettare e diffi- dare dei partiti, perchè un'unica idea, alta e degna, dominava sovrana: scacciar lo straniero. Era me.stieri non lasciarla intiepidire, bensì ec- citarla al massimo grado con lo spettro del pe- ricolo, non del tutto scomparso, d'un ritorno degli austriaci, che intanto s' andavano radu- nando nel quadrilatero formidabile. » Dall' errore politico, facilmente rimediabile, derivò l'errore strategico, che fu ben più grande, e portò seco conseguenze irreparabili. La strategia pura osserva giustamente De- metrio) è scienza tutta di previsione, e domina come tale tutta la politica d'uno Stato, che ha in prospettiva una guerra di rivendicazione o di difesa, da cui possono dipendere tutte le sue sorti future. " Nessun ministro o generale piemontese, (scrive il nostro autore), per sventura d'Italia» 248 diede segno di conoscerne nemmeno lontana- mente i principi; onde appariranno irrespon- sabili se non seppero applicarli. „ Pare che Carlo Alberto, il quale aveva tanto indugiato ad assalire l'esercito di Radelzky nel momento opportuno, quando, debole come que- sto era e moralmente depresso, la vittoria non poteva mancare, avesse poi fiducia di vincerlo, una volta già ingrossato, colle sole sue forze. Ma queste, che avevano passato il Ticino, non arrivavano a 30.000, con 48 bocche da cannone- Ai qual proposito il già generale dep. Marazzi nel libro, già menzionato, L'Esercito nei lempi nuovi, scrive: " L'esercito del Piemonte doveva essere in pace di 53.000 uomini, e sui registri matricolari ascendeva a 169.000. " Gli arruolamenti erano principiati ai primi di gennaio; al 18 marzo scoppiava l'insurrezione di Milano, ed il ministro della guerra chiedeva ancora 15 giorni per completarli ! " Cosi sfuggiva una prima occasione di sicura vittoria, n Dichiarala la guerra all'Austria il 23 marzo, le truppe piemontesi, sebbene una grossa parte fosse a mezza giornata dal confine, passarono il Ticino, come s'è detto, soltanto il 28 e 29 marzo; il peggio è che facendo prendere al grosso dell'esercito la via di Pavia, invece di inseguire il nemico per la via più breve, se ne allontanava. Arrivato il re il 30 a Lodi colla 1* divisione. D'Arvillars, vi rimase tutto il 31 di marzo. Dopo sei giorni di guerra una sola tappa dal confine, 34 chilometri ! " A Lodi il re seppe che Radetsky aveva riu- nito il suo esercito nei piani di Montechiaro, 249 e per non attaccarlo di fronte con le poche forze che allora avea, stimò bene di girare pel basso Mincio. Si avanzò per Breno fino a Mac- cario, e passò il Mincio il 7 aprile. ^ Cosi il generale G. F. Moreno, nel suo Trat- tato di Storia Militare, la cui censura critica qui si arresta. Ma, come osserva benissimo Demetrio — di- venuto ormai nostro collaboratore in questo compendio storico — tutt' altra era la via che l'esercito piemontese doveva seguire, Obbiettivo strategico per Carlo Alberto doveva essere l'eser- cito di Radetzk}-; scopo supremo raggiungerlo. La linea direttrice strategica era Crema, Son- cino. Orzinovi, per volgersi di là alla volta di Brescia, o di Castiglione delle Stiviere o di Azola, secondo gli indizi che si sarebbero avuti della via di ritirata seguita dalle truppe au- striache. Queste erano ancora numericamente più de- boli dell'esercito piemontese, ch'era inoltre fian- cheggiato e preceduto da alcuni corpi franchi, allora animati da grande entusiasmo. " Era dunque il momento di avanzare difilato verso il campo di Radetzky e avventarglisi ad- dosso senza perdere un minuto. Ma il re e i suoi generali, Bava, De Sonnaz, Chiodo, di Sa- luzzo e gli altri, ch'egli aveva chiamato a con- siglio, impressionati dalla voce, fatta spargere astutamente da Radetzky, ch'egli raccoglieva tutte le truppe del Lombardo-Veneto per rien- trare in Milano, ebbero paura di raggiungerlo, e menarono l'esercito in quel basso paretaio for- mato dagli argini del Po e dell' Oglio, tra Boz- zolo e Viadana. „ Strana decisione, come strano il fatto, con- fermato da lettere del conte ?ilartini, intimo di 250 Carlo Alberto, che l'esercito piemontese era guidato da ufficiali, che non avevano carte geo- grafiche! Certo è che per etretto della risoluzione presa a Lodi dal consiglio dei generali, tra la brigata Bes, che aveva preso la via di Treviglio, Brescia, Montechiari, e il grosso dell'esercito, che marciava rasentando la sponda sinistra del Po, non poteva più esservi alcun legame; le due colonne marciavano parallele, ma ad una di- stanza di 45 chilometri. Bes era a Brescia, quando il re col nerbo dell'esercito era a Cre- mona. Guai se Radetzky, ch'era nel mezzo, avesse avuto sotto mano truppe cosi numerose e rior- dinate, come i generali piemontesi s'erano im- maginato. La viziosa posizione dell'esercito nostro sa- rebbe bastata per perderlo irrimediabilmente, poiché Radetzky poteva, prima di riparare di là del Mincio, calare lungo l'Oglio, piombare sul- l'esercito piemontese a Canneto, ad Utiano, o a Pontevico, e quasi senza combattere rovesciarlo tutto quanto nel Po. Acciocché si veda che l'impresa non sarebbe stata difficile ad un generale più avveduto e più risoluto di quel che fosse il feldmaresciallo Radetzky, non abbiamo che da riportare qual- che brano della Relazione « ufficiale » del ge- nerale Bava sulle operazioni del primo corpo d'armata, in cui parla delle disposizioni morali di una parte delle truppe, dopo le prime marcie, che parevano dettate dalla paura d'incontrarsi troppo presto col nemico. « Di ritoiuo agli alloggiamenti (in Marcarla sul- l'Oglio), io mi occupava a stabilire meglio le oc- cupazioni e le cautele che ogni posto avrebbe dovuti» 251 pieuclere, quando alcuni colpi di fucile mi si fecero sentile alla mia sinistra. Accorsi senza indugio, e vidi fuggire in colonna tutto intiero un battaglione, che io aveva lasciato alla guardia di quella parte. Immautiuente gli ordinai di sostare e di spiegarsi, e spintomi innanzi per ben conoscere la direzione di quei colpi, potei convincermi che erasi dato addosso ad alcuni mugnai di quel dintorno, i quali scambiati si erano in nemici. Questo piccolo allarme spargen- dosi fino a Marcarla, si propagò subito al di là del- l'Oglio : e tutto un reggimento di cavalleria, che tran- quillamente ritornava a San Martino, credendo, in seguito alle voci che correvano, di essere attaccato in coda da numerosa cavalleria nemica, partì in carriera per trarsi al più presto dalle strette in cui si trovava e cercare un luogo dove potersi spiegare e tener fronte. Così venne a destarsi lo spavento in tutte le popolazioni fino a Bozzolo... < Dopo la sorpresa di Marcarla, le nostre truppe «rano in continuo orgasmo ; nella notte, piti accessi- bile alle vane paure, pareva loro di vedere dovunque il nemico : i colpi di fucile si facevano sentire ad ogni momento ; ad ogni momento si era sotto le armi, ed era piìi a temersi il fuoco de' nostri, che quello dell'avversario. Ne questi sussulti, questi allarmi, che furono assai frequenti durante il soggiorno del re a Sommacampagna, ebbero a cessare sì presto, che anzi essi furono più o meno continuati per tutta la cam- pagna ». Questi episodi non sono naturalmente giam- mai ricordati dagli apologisti delle guerre, e dagli eterni encomiatori degli eserciti regolari, pei quali la disciplina, il coraggio e il sangue freddo dei nostri soldati sono virtù indiscu- tibili. Per buona fortuna le truppe austriache erano ancora in tal disordine e così mal disposte a combattere, che Radetzky senza neppure pen- sare di gettarsi sulla colonna del generale Bes, 2Ó2 abbandonò la linea del Chiese, per mettersi al riparo entro Verona. Avutane notizia, i generali piemontesi passa- rono rOglio con tutto l'esercito il 7 aprile. Seguì allora lo spiegamento strategico di tutto l'esercito di rimpetto al Mincio: il 1" corpo di faccia a Goito, il 2° di contro a Valeggio e a Monzambano; la riserva a Gavriana e a Solfe- rino; il quartiere generale del re a Castiglione delle Stiviere. Qui l'amico Demetrio nota con soddisfazione che abbaniionandosi cosi . quasi automatica- mente, la falsa « direttrice strategica » del basso Oglio, veniva presa una posizione militarmente meno scorretta. Dopo quattordici giorni di pas- seggiata in guerra, senza aver sparato un colpo di fucile, il risultato era un po' mediocre. E Radetzky, che si sarebbe potuto raggiungere in tempo e sconfiggere, aveva intanto potuto rin- chiudersi nel quadrilatero, dove a tutto suo agio poteva ristorare il suo esercito, e attendere il momento opportuno di riprendere l'offensiva. Anche gli errori incruenti commessi in guerra, presto o tardi si scontano. Perduta l'occasione di vincere, mettendo a profitto i due grandi fattori di vittoria, quali erano la disor^Janizzuzione e lo scoramento degli austriaci e l'entusiasmo delle popolazioni insorte, la guerra diveniva una lotta fra due eserciti regolari, alla quale, insieme al numero, la valentìa dei generali doveva essere il mag- gior coefficente di vittoria. Gli austriaci, s'è già visto, non avevano alla loro testa né un Montecuccoli, né un Arciduca Carlo, ma, ahimè! da questo lato gli italiani stavano peggio. Quanto al numero, venne presto il giorno in 253 cui il Piemonte e la Lombardia dovevano cal- colare sulle loro sole forze. Gli altri principi italiani, non appena ebbero sentore che la vittoria avrebbe avuto per risultato l'ingrandi- mento del solo Piemonte, non vollero più sa- perne di cooperarvi. Il granduca di Toscana, dopo il corpo di 6000 uomini, fra regolari e vo- lontari, mandato nei primi giorni, sotto la pres- sione dell'opinione pubblica, non mandò altre truppe. Pio IX, ricordatosi di essere, più che principe italiano, pontefice dell'universo catto- lico, e temendo. uno scisma negli Stati ereditari austriaci, disdisse il 29 aprile in un' Enciclica la guerra all'Austria. Pochi giorni dopo (15 maggio), il re di Na- poli, consumato il suo tradimento contro la Camera e la Costituzione da lui giurata, mandò l'ordine al suo corpo di spedizione, già arri- vato a Ferrara, di far ritorno nel regno. Il generale Pepe che lo comandava tentò in- vano di trattenerlo. " Davanti (egli disse agli ufficiali, additando il Po) è l'onore; il ritorno è la defezione „. Un sol reggimento di linea, i volontari e alcuni ufficiali d'artiglieria, Cosenz, i fratelli Mezzacapo, UUoa, che in seguito pre- sero posto fra i migliori dell'esercito italiano, lo seguirono ; il grosso delle truppe napoletane ritornò nel xearae a servizio della reazione. Della Lombardia, che così valorosamente aveva cominciato la lotta, e sebbene si dovesse combattere per la sua esistenza politica, il concorso alla guerra fu meschino. Non più di 5000 furono i volontari che, facendo seguito alla colonna di Manara, furono da Milano e da Brescia, mandati in campo, e le due divi- sioni di linea, che più tardi furono raccolte e organizzate, arrivarono sul teatro della guerra, 254 quando le sorti di questa erano già molto com- promesse. A torto, di questo scarso contributo alla guerra furono da gazzettieri prezzolati e da storici uf- ficiosi incolpati i repubblicani, i quali invece, come tutti i documenti lo provano, a comin- ciare dai primi giorni, non si stancarono mai di eccitare i governanti lombardi e l'opinione pubblica al generale armamento e alla mag- giore e più rapida cooperazione possibile di volontari e di truppe di leva alla guerra. Fu il governo provvisorio, il quale fermo nel- l'idea, anche dopo le inesplicabili lentezze e i gravissimi errori delle prime operazioni di guerra, che la vittoria fosse immancabile, non volle dare ascolto a quelle esortazioni, respinse pur anco gli aiuti che venivano offerti da corpi svizzeri; non volle neppur saperne dell'aiuto francese, acciocché nessuno potesse sottrarre una parte qualsiasi del prestigio della vittoria all'esercito piemontese, e al re che lo coman- dava, pel quale teneva in serbo, come premio, la corona di ferro dei re longobardi. Furono i ministri piemontesi e il re Carlo Alberto medesimo, i quali, troppo fiduciosi nelle proprie forze, anche quando dovevano apparire assai scarse a chiunque mediocremente edotto di cose di guerra, facendo cattivo viso all'ele- mento dei volontari, respingendo con superbe ripulse (come si fece con Gialdini) i servigi che venivano offerti, o accogliendoli tardi e di mal animo (come avvenne con Garibaldi e colla sua legione), mantennero nell'opinione pubblica la fallace illusione che le sole forze piemontesi bastassero alla grande impresa. Pur troppo in guerra le illusioni si scontano a prezzo di sangue, di lagrime e di vergogna. 255 11 -Mincio, che è fiume né largo né profondo, non offriva a Radetzky una buona linea di di- fesa. Non avendo nel suo corso sotto Peschiera nessun punto fortificato , ed essendo linea troppo estesa per disseminarvi le già scarse sue forze, il vecchio Maresciallo diede ordine ai comandanti delle diverse posizioni sul Min- cio, che, se venivano assaliti con viva forza dal nemico, non dovessero difendersi che legger- mente, e ritirarsi subito su Verona. E ciò che avvenne. Soltanto a Goito fu fatta dal gen. Wohlgemuth, una resistenza non lieve La città, munita di vecchie mura, era stata an che barricata. La difendevano cacciatori tirolesi Una parte della brigata austriaca stava ac campata sulla sinistra del fiume, di dove do minava le strade che menano a Goito. I bersaglieri, dopo fugati i tiratori nemici dalle alture sovrastanti Goito, guidati dal loro colonnello Alessandro Lamarmora, s'accinsero ad assaltare la città. Ma sulla strada che vi conduce furono assaliti dai nemici che tira- vano dalla caserma dei gendarmi dominante la città e dalle truppe schierate sulla sini- stra ^el fiume. Dopo breve fernjata, i ber- saglieri si spinsero arditamente verso la parte della città, seguiti dal piccolo battaglione Real Navi e da un drappello di Aosta Cavalleria. La lotta in città fu aspra e lunga, che gli Jàger (Cacciatori tirolesi) che la difendevano, tiravano da barricate e dietro muri a feritoie. Sostenuti da altre truppe spedile in buon punto dal gen. Bava, i bersaglieri riportarono com- pleta vittoria. Durava ancora il combattimento, quando una parte dei bersaglieri si portarono a corsa verso il ponte, nel momento che que- sto, già minato, era fatto saltare in aria. 2r)r) Rimasto però in piedi un parapetto , quei bersaglieri vi passarono sopra, per inseguire il nemico, a cui fecero un'ottantina di prigio- nieri. Al buon successo avevano concorso alcuni pezzi d'artiglieria, posti su un'altura, il cui fuoco ben nutrito smontò un cannone degli austriaci e mise in fuga i nemici ch'erano sulla sinistra sponda. Fu il primo combattimento fra piemontesi e austriaci, e perchè mise in mostra la superiorità dell'artiglieria nostra su quella nemica e l'intre- pidezza dei soldati, specialmente dei bersa- glieri, concorse a mantenere alta la fiducia nel successo di tutta la campagna. La bella vittoria fu però strombazzata, co- stume del tempo, come grande battaglia, men- tre dalla parte austriaca , secondo il gene- rale Bava, non presero parte più di mille e due- cento fanti e sessanta cavalieri, laddove il Ve- terano a»sfr/aco, gen. Schonhals, afferma che in Goito « una compagnia di cacciatori sostenne una viva pugna per quattro ore contro cinque mila uomini almeno ». Schònhals chiama questo un « combatfimenlo d'avamposti » e dice che rimasero morti, oltre un capitano, due nipoti di Andrea Hòfcr. « Il Ti- rolo (son parole di Schònhalsj faceva più tardi dissotterrare e trasportare le spoglie dei due Hòfer, che riposano ora ai piedi del loro va- loroso antenato >. Dalla parte nostra rimasero morti il capi- tano Galli della Mantica e un tenente dei ber- saglieri ; fra i feriti gravemente ci fu il colon- nello Alessandro Lamarmora ; dei gregari fra morti e feriti un centinaio. Il 10 aprile l'esercito piemontese trovavasi 257 padrone delle due sponde del Mincio, e la vit- toria di Goito ne aveva rialzalo immensamente il morale. Una tale situazione, in una campagna comin- ciata, esempio unico nella storia, contro un nemico in ritirata « aumentava (come scrisse Pisacane) del quadruplo le forze del re >\ Era dunque venuto nuovamente il momento di fissar bene il piano da seguire. Radetzky stesso, concentrandosi con tutte le sue forze disponibili nel campo trincerato di Verona, l'aveva suggerito. Prendere posizione con tutto l'esercito en- tro il quadrilatero, manovrando in modo da costringere il nemico a dare o ricever bat- taglia, doveva essere il pi'incipale obbiettivo. Se. debole com' era, Radetzkj', non voleva dare né accettar battaglia, chiuderlo in un cer- chio di ferro, isolarlo, tagliandogli le comuni- cazioni colle altre tre fortezze del quadrilatero e col resto della monarcliia, e impedire a qua- lunque costo che il suo corpo di riserva, che si stava formando al di là dell'Isonzo, potesse giungere a destinazione, correndogli addosso con forze superiori, sicché a Radetzk}', se non voleva far la fine del sorcio in trappola, più non rimanesse altra risorsa che di tentare la sorte delle armi. — questo doveva essere il piano di guerra, in un momento ancora tanto propizio per l'indipendenza d'Italia. Si sa che in guerra l'unità del comando è condizione indispensabile di vittoria, e Carlo Alberto, già designato dai suoi fautori e dai governi provvisori condottiero d^Ua guerra d'indipendenza, doveva, lasciando impregiudi- cata la questione politica, assumere il supremo comando di tutte le forze italiane in campo. 17 258 Ma tale (iiscgno, per la cui esecuzione, la stupenda campagna di Bonaparle del 1796. sul medesinio terreno. otTriva tanti mirabili inse- gnamenti, non venne in mente né al re, né ad alcuno dei generali che Io avvicinavano. Il peggio è che non ne avevano alcuno. Facevano la guerra, senza sapere come con- durla, ignari delle vie da seguire e del lato debole dell'avversario, ponendo tutte le loro speranze nella divina provvidenza o nel caso. Non sapendo a qual partito appigliarsi, il comando dell'esercito piemontese, timoroso di avanzare, tenne accampato l'esercito lungo la riva destra del Mincio, solo occupando con forti avanguardie i tre sbocchi della sponda sinistra. « Ma quello che vecchi generali e buone truppe regolari non ardiscono di fare, s'attenta farlo il borghese Manara co' suoi volontari novellini. « La mattina dell'll aprile, imbarcato il suo battaglione su due piroscafi a Salò, traghetta il Iago, piglia terra a Girano, donde scorrazza sulle colline fra Benaco ed Adige. Piglia mu- nizioni da una polveriera vicino a Peschiera, fa prigioniera una compagnia di fantaccini fo- raggianti intorno a Castelnovo, e via via col solo suo battaglione minacciava la linea strate- gica di tutto il quadrilatero verso il Trentino. Radetzky non poteva non vedere quel pericolo, e mandò il gen. Taxis a rimoverlo. <\ Se non che il Manara non meno accorto e prudente, quant'era stato arditissimo, tenendo in rispetto un nemico sei volte superiore, ri- piegò da Castelnovo, dove la colonna del Taxis entrando infuriata s'abbandonò a sua posta al sangue ed al saccheggio. Ben 400 di quei 259 miseri abitanti, colpevoli di avere bene accolti i volontari di Manara, furono feriti, uccisi, ol- traggiati. Manara asserragliatosi nel Castello di Lasize, attese, indisturbato, i piroscafi che lo trasportarono di nuovo a Salò. « Egli aveva indicata la via dell'azione ai ge- nerali piemontesi, che non la videro, né la ca- pirono mai. « Soltanto il 13 il re fece fare alle divisioni del 2.° corpo una ricognizione rumorosa sotto Peschiera, intimando inutilmente la resa. Sei giorni dopo ne ordinò un'altra, non meno inu- tile, a due divisioni del 1.° corpo, verso Man- tova, sperando nella insurrezione di cittadini disarmati contro un presidio di 12,000. Poi al- tra ricognizione a Castelnuovo, a Marmirolo e verso Sommacampagna: oziose passeggiate di chi non sa che si fare (D ». Per venire in aiuto di Trento, che fin dalle giornate di Marzo aveva inalberata la bandiera tricolore, e mostrata l'aspirazione di unirsi al Lombardo-Veneto, e per tagliare l'unica via di comunicazione che a Radetzky rimaneva col- l'Austria, diveniva importantissima l'occupa- zione del Trentino. Di quest'operazione, che poteva avere conse- guenze incalcolabili sulle sorti della campagna, fu incaricato lo svizzero generale Alemandi, nominato dal governo provvisorio di Lombar- dia comandante dei corpi franchi (volontari) Arcioni, Beretta, Longhena, Manara, Thannberg (1) Questo come gli altri brani virgolati, che segui- ranno, sono tolti dal lavoro inedito sulle Guerre d'Indipen- denza d'Italia, di Demetrio. 2()() e Vacari. Erano tutte milizie improvvisate, a cui per far buona prova, occorrevano buoni capi e l'appoggio di un po' di truppa regolare. Del non avere a ciò provveduto, il generale Schònhals. benché nemico , dà biasimo a Carlo Alberto. Ma questi, oltre che vedeva con piacere allontanarsi quei corpi di volontari, che pel loro spirito insurrezionale potevano esercitare una cattiva influenza sulle sue truppe, non si preoccupava gran cosa di tutto quanto poteva accadere fuori della ristretta cerchia di territorio su cui operava il suo esercito. Perciò non pare che più tardi ab- bia dato la minima importanza a quella compa- gnia di studenti dell'Università di Padova e a quei volontari, che s'eran da sé stessi appellati crociali, trevigiani e triestini, che uniti sotto il comando del vecchio generale San Fermo, erano venuti a prendere posizione ad oriente di Ve- rona, occupando una fronte di undici chilome- tri da Agugliana a Sorio e a Montebello. Fu perciò facile al principe Lichtenstein, mandato da Radetzky a rompere quella sottile maglia, di raggiungere il suo intento. Montebello, dove era stata maggiore la resi- stenza, fu preso d'assalto, poi saccheggiato. A Sorio la difesa fu fatta strenuamente da una compagnia di studenti, che ebbe 49 uccisi. Un buon numero di crociati furono fatti prigio- nieri; gli altri volsero tutti, dopo breve resi- stenza, in disordinata fuga. Conseguenza inevi- tabile, quando a milizie improvvisate si danno capi inettissimi. Non molto più fortunata, sebbene non cosi ignominiosa, fu la spedizione dei corpi volon- tari del generale Alemandi nel Trentino. Nei primi giorni la colonna Arcioni assali il nemico 261 alle Sarche e s' impadroni di Castel Toblino. Un'altra colonna, combattendo, occupò il passo del Tonale, per passare di là in Val di Sole. Radetzky, presentendo il pericolo, aveva da Verona spedito nel Trentino una brigata co- mandata dal colonnello Zobel. Questi . dopo avere disarmato la popolazione di Trento, e tradotto in castello come ostaggi i più noti pa- iriotti, colle forze che già trovavansi in quelle terre formò due colonne, ognuna delle quali superava numericamente quelle dei volontari italiani. All'avvicinarsi del nemico, Arcioni si ritirò a Stenico ; nella notte del 18 Manara giunse in suo soccorso, quando il disordine era già en- trato nelle file di Arcioni. Nondimeno l'indo- mani mossero insieme contro il nemico. Il com- battimento cominciato alle 4 poro, durò tre ore sotto dirottissima pioggia, e finì, dopo un rin- forzo venuto agli austriaci, che assali il fianco sinistro dei nostri, colla piena ritirata di questi. Né miglior fortuna ebbero la colonna che aveva tentato l'avanzata dal Tonale e le compagnie che passavano alla ventura qua e là nel Tren- tino. " Questa spedizione (scrisse Pisacane, che militò anch'egli nel Trentino), alla quale non- presero parte neanche tutte le diverse colonne dei volontari, non fece che inutilmente com- promettere gli abitanti^ portare lo scoraggia- mento fra quella valorosa gioventù, di già af- franta dai disagi della guerra, accompagnati da tutte le privazioni prodotte dalla cattiva am- ministrazione e dalla perfida volontà (meglio era dire dalla colpevole incuria) del governo provvisorio „. Se si dovesse credere a Schònhals questi 262 combattimenti non sarebbero costati agli au- striaci cbe la perdita di un uomo, " 1 prigio- nieri furono condotti a Trento; diciaselte di- sertori dei reggimenti Gcppert e Haugwitz, che trovavansi tra quelli ancora con indosso l'uni- forme del loro reggimento, furono fatti fucilare dal colonnello Zobel „. Cosi da un militarista genuino si rispondeva allo spirito di generosità, di cui diedero prova nella vittoria gli uomini della italica rivolu- zione, 1 quali non vollero mai vendicarsi nep- pure di coloro ch'erano stati principali istiga- tori delle crudeltà commesse contro il popolo nel periodo anteriore alla rivoluzione. Il generale Schònhals dopo avere menzio- nato questo triste episodio, subito soggiunge: « Ma il feld-maresciallo non voleva che que- sta guerra assumesse un carattere di cru- deltà e degenerasse in una lotta di cristini e carlisti, ed ordinava perciò che per l' innanzi più non avessero a fucilarsi i prigionieri «. Tutte le colonne dei volontari ebbero poi l'ordine di recarsi a Brescia e a Bergamo per esservi riordinate. Ritiratosi il generale Ale- mandi , nel quale i volontari non avevano più fiducia, fu mandato a riordinare la colonna Arcioni un. ufficiale piemontese. Egli presenta- tosi a quei giovani, fece loro la prima invoca- zione nel nome di Sua Maestà il Re. al che (lo afferma Pisacane, che ebbe la notizia da uffi- ciali e militi della legione Arcioni) la colonna Arcioni rispose concorde Viva la Repubblica, e si sciolse. Se l'ufficiale piemontese aveva avuto torto di non informarsi prima dei sentimenti di quei volontari, questi ebbero più grave colpa abban- donando la milizia. Privare la patria del proprio 263 concorso, quando la guerra d'indipendenza con- tinuava, non era il miglior modo di dimostrare la superiorità morale delle proprie concezioni politiche. Dopo avere lasciato l'esercito inoperoso per due intere settimane, dando cosi tempo al ne- mico di prendere animo e di riordinarsi, il 26 aprile il re si decise, finalmente!, a una vigo- rosa azione nell'interno del quadrilatero. Erano allora giunte ai reggimenti le classi in congedo, e dav.-.nti a Mantova nel Basso Mincio i toscani, unitamente al 10° napoletano e ai vo- lontari parmigiani, tutt' insieme in forza di 10500 uomini. " Lasciati i nuovi venuti in osservazione da- vanti a Mantova, nel Basso Mincio, da Goito a Curtatone fino al ponte di Governolo, tutto le- sercito piemontese, cautamente e lentamente si avanzò nella regione collinosa, occupando man mano Custoza, Sommacampagna , Sona, Santa Giustina, Sandrà e Colà. Le truppe così disposte venivano a formare un'immensa curva a guisa di ferro da cavallo, con l'arco rivolto a Verona. S'intendeva cosi di coprire le truppe che bloccavano Peschiera. " Se non che il generale Taxis, scendendo da Pastrengo, veniva a minacciare tutto il lato set- tentrionale di questa linea parabolica ,,. Pastrengo. a tre ore a monte da Verona è di incontestabile importanza, poiché prende di fianco la posizione dinanzi a Peschiera e co- pre quella di Rivoli, formando ad un tempo una testa di ponte naturale. Perciò se quelle alture fossero state fortificate, sarebbero state, a giudizio del generale austriaco Schònhais, inespugnabili. Dietro Pastrengo la riva scende pressoché a picco sull'Adige. Comprendendone 2(')4 l'importanza, circa l'assedio di Peschiera, il re decise d'impadronirsi di quella posizione e di appoggiarsi addirittura sulla riva destra del- l'Adige. "Senza avvedersene (osserva Deme- trio) cominciava ad eseguire un'operazione stra- tegica „. Radelzky, che vedeva così troppo minacciata la sua linea di comunicazione con Peschiera e col Tirolo, spedi sul luogo l' intera divisione Wòcher. L'attacco incominciato la mattina del '29 dal generale Broglia, ch'era a Santa Giustina, venne respinto. Il .30 aprile il comandante del IFcorpo, generale Sonnaz, riprese l'offensiva con sei brigate. Uscendo da Santa Giustina, da Sandrà e da Colà in tre colonne, [)er vie convergenti si avviò ai poggi delle Brocche e di Valena, dove gli austriaci aspettavano trincerati.... La loro difesa fu lunga, accanita, ma alla fine, dopo sei ore, gli austriaci furono respinti verso l'Adige. Perdettero 1200 uomini fra morti, feriti e prigionieri. Mentre durava il combattimento di Pastrengo, Radetzky, che accampato sotto Verona riceveva ogni tratto notizie delle sue diverse fasi, pre- vedendone l'esito, tentò una diversione, facendo col resto delle sue forze disponibili una dimo- strazione contro le alture di Sona e Santa Giu- stina. Egli stesso ne prese il comando; arrivato poco lungi da quelle alture, le sue batterie comin- ciarono il fuoco, a cui risposero quelle pie- montesi. Quancio credette di aver dato un suf- ficiente respiro alla divisione che combatteva a Pastrengo. Radetzky ordinò la ritirata. " Il nemico non c'inseguì (scrive il generale Schònhals); altrimenti quella ritirata non avrebbe 265 potuto effettuarsi se non con grave perdita, pe- rocché se il nemico colla superiorità della sua artiglieria fosse riescilo a distruggere alcuni pilastri del ponte, le truppe prese in mezzo fra l'erta riva ed il fiume avrebbero dovuto arren- dersi ». E fra quelle truppe trovavasi Radetzky. Se, come nota giustamente Demetrio, la brigata Casale non fosse andata a impantanarsi nelle sorgive del Tione, se una delle due brigate, che poco avevano da fare intorno a Peschiera, fosse stata avviata all' estrema ala sinistra, minac- ciando al momento opportuno il tergo della li- nea nemica; e se sovratutto, diciamo noi, il ge- rerale Bava, dalle alture di Custoza. Sommacara- pagna e Sona, che non aveva ombra di nemici davanti a sé. fosse stato chiamato dal re, la sera del 29, ad appoggiare il IP corpo, il solo che fu impegnato nell'azione, la battaglia di Pa- strengo invece di essere risultata un brillante episodio, sarebbe divenuta una giornata cam- pale, finita colla rotta completa del nemico. Fu dunque anche quella di Pastrengo una stupenda occasione perduta di terminare rapi- damente e gloriosamente la prima — che pro- babilmente sarebbe rimasta unica — guerra dell'indipendenza italiana. Non ostante i commessi errori, la battaglia di Pastrengo era stata propizia, perchè aveva messo un'altra volta a bella prova l'ardore dei soldati piemontesi e dimostrata la superiorità della loro artiglieria, che non poco aveva contribuito- colla precisione dei tiri al fortunato esito di quella giornata. ♦ * * ^ Assai diversamente volsero le cose nella san guinosa giornata di Santa Lucia. Per « presentare battaglia alle forze nemiche >>, 26fi , ma non dice in che sieno consi- stiti questi immensi risultati. Le disposizioni da lui prese dal punto di vi- sta puramente difensivo erano state buone; i soldati avevano valorosamente combattuto, e l'artiglieria s'era mostrata un'altra volta ammi- revole pel suo contegno e per la precisione dei tiri, ma coU'astenersi dall' inseguire il nemico volto in ritirata, gli « immensi » frutti che da quella vittoria potevano ritrarsi, mancarono del tutto. « Vi sono momenti (scrisse, a proposito ap- punto di Coito. Pisacane) nei quali la vittoria si presenta si chiara, che il non profittarne è delitto. I piemontesi non erano a Coito, meno di 20 mila uomini, gli austriaci non superavano i 16 mila; i piemontesi erano in paese amico, gli austriaci in paese nemico. I piemontesi vin- citori, gli austriaci vinti; i piemontesi insegui- vano, gli austriaci si ritiravano. Quale momento 280 se non questo più propizio per profittare della vittoria? » Ma il generale Bava, dopo aver detto che la vittoria di Coito aveva molto rialzato lo spirilo dell'esercito, ne fa una grave censura, scri- vendo : « Noi ci trovavamo troppo deboli a petto dell'esercito nemico, per esporci a cosi- ffatte venture con soldati giovani, tanto Aicili a dar luogo allo sconforto ». Il giorno medesimo della battaglia di Goito, Peschiera si arrendeva ai piemontesi. Queste due vittorie destarono in tutta Italia, specialmente in Lombardia, un'immenso tri- pudio; e il comando supremo dell'esercito, lieto degli applausi e degli incensamenti che a lui venivano da tutte le parti, non si curò dei do- veri che in quel momento più gl'incombevano, non si diede pensiero delle mosse del nemico; e quando ne indovinò il disegno, ch'era, pas- sando l'Adige a Legnago, di gettarsi con tutte le sue forze su Vicenza, non pensò né ad impe- dirlo, né a raggiungerlo per dargli battaglia, mentre era impegnato sotto Vicenza contro Du- rando. Questi, che s'era mostrato cattivissimo gene, rale quando doveva contrastare la marcia di Nugent, assalilo all'improvviso, fece buona difesa; perdette mille uomini fra morti e feriti, e capitolò con tutti gli onori delle armi ; « di che i soldati di mestiere si contentano, i sol- dati cittadini no „. Perduta Vicenza; Treviso, Padova, Rovigo, caddero l'una dopo l'altra in potere degli au- striaci, e l'esercito del maresciallo, accresciuto d'un novello corpo di riserva, trovossi presto in condizioni di intraprendere imprese più ga- gliarde e decisive. 281 « Il colpo di mano su Vicenza era riuscito stupendamente agli imperiali senza recar loro il minimo danno, per la prontezza e le cautele studiosamente osservate nell'esecuzione; il colpo su Custoza riuscirà pur troppo, agevolato dalla lentezza bonaria dei comandanti piemontesi, cui il tempo non era elemento di forza » (De- metrio). Custoza. Nella seconda metà di luglio Radetzky aveva sotto i suoi ordini quasi 120 mila uomini, dei quali, tolti quelli che tenevano presidio in Man- tova, Legnago, nelle città venete, e che occu- pavano il Tirolo e il Trentino, glie ne rimane- vano più di 50 mila da poter portare in bat- taglia. Carlo Alberto, dopo che gli erano giunte le divisioni Visconti e Perrone (formata questa di soldati lombardi, quella di lombardi e piemon- tesi) e nuove truppe dai ducati, poteva contare su circa 80 mila uomini. Le probabilità di vittoria, dandosi battaglia, erano dunque tornate dalla parte nostra; ma occorreva perciò tenere le truppe poco distanti sicché, in caso di un'azione generale, potessero a poche ore di tempo, accorrere tutte, o la maggior parte, sul campo di battaglia. Invece Carlo Alberto, ch'era prode soldato, ma pessimo generale, distribuì le sue forze in modo da perdere il vantaggio del numero che egli aveva sul nemico. Dal Monte Corona sopra Rivoli sino a Gover- nolo sul Po, i nostri occupavano un'estensione di 120 chilometri. Per colmo di sciagura più di 20 mila uomini furono impiegati nel blocco di 282 Mantova, togliendo per questa impresa una parte delle truppe del centro che fronteggia- vano Verona. Questo piano sarebbe inesplicabile, se fra i documenti pubblicati poco tempo dopo dal go- verno britannico, non si trovasse una lettera del ministro inglese a Torino a lord Palmer- ston, in data del 10 luglio, che riferiva avere Carlo Alberto, con una lettera da Roverbella, dictiiarato essere disposto ad accettare proposte di pace, sulle basi del confine dell'Adige; la quale pace avrebbe poi dovuto essere conside- rata come " onorevole e gloriosa per il Pie- monte, vista la forza relativa della Sardegna e dell'Austria v. 11 governo di Vienna intorno a quel tempo aveva fatto offerte di pace sulle accennate basi, ed era probabilmente per non arrestare le trat- tative che a tale scopo correvano fra Vienna, Londra e Torino, clae Carlo Alberto credeva opportuno non impegnare nessuna battaglia, te- nendosi sulla semplice difensiva, nella speranza forse che Radetzky avrebbe fatto altrettanto. Ma questi, quando vide che la lunga linea ne- mica doveva essere debole dai^pertutto, risolse di sfondarne il centro, far assalire contempo- raneamente il corpo di De Sonnaz, nella sua posizione di Rivoli, impadronirsi dei passi del Mincio, e prendere a rovescio e sui fianchi il resto dell'esercito piemontese fin sotto Mantova. Questo suo piano gli riesci quasi completamente. Il generale Thurn, scendendo dal Trentino, anticipò d' un giorno l'attacco alle truppe di Sonnaz. Queste, dopo diversi combattimenti va- lorosamente sostenuti contro forze superiori, si raccolsero la sera del 24, nella fortissima po- sizione di Rivoli. 283 Stragrande fu la sorpresa degli austriaci , quando al mattino si accorsero che quella for- midabile posizione era stata dai nostri abban- donata. Se il generale Sonnaz avesse ritirato quelle truppe per concturle verso Santa Giustina e Sona, dove vi era il resto del suo corpo d'ar_ mata, o se' avesse occupato fortemente Valleg. gio, forse le sorti della battaglia che stava per cominciare, sarebbero state diverse. Egli invece non si sa per quali considerazioni, si ritirò dapprima sotto Peschiera, poi sulla destra del Mincio, a tale distanza da rimanere nell'inazione proprio in quei tre giorni in cui si decidevano le sorti di tutta la campagna. Non meno di 40 mila uomini, condotti da Radetzky in persona, assalirono il mattino del 23 le alture che si stendono da Sona a Cu- stoza. difese da non più di 15 mila uomini. La divisione Visconti, vedendosi assalita da forze superiori, si ritirò quasi senza combat- tere, abbandonando al nemico le forti posizioni di S. Giorgio in Salice. Salionze e Valleggio. Le alture invece, tra Santa Giustina e Sona furono gagliardamente difese dalla divisione Broglia contro l'ala destra degli austriaci, men- tre la loro ala sinistra assaliva fortemente Sommacampagna, dove cinque battaglioni pie- montesi e due toscani difesero valorosamente la posizione contro tre brigate austriache. In- fine dopo tre ore di lotta combattuta con di- versa fortuna, le forze soverchianti degli au- striaci divennero padrone di tutta la linea da Santa Giustina a Custoza, non che delle posi- zioni di Castelnuovo, Oliosi e Montevento sulla strada di Valleggio. Dal raggio delle operazioni intraprese 284 nemico e dai suoi successi in poche ore otte- nuti, non vi doveva essere dubbio al quartier generale di Carlo Alberto, che tutto l'esercito austriaco trovavasi in azione. Doveva dunque essere chiaro che non era più possibile vin- cerlo, se non opponendogli tutte le forze del- l'esercito nostro, ciò che non si poteva ottenere se non prendendo posizione a Goito e a Volta, dove le truppe richi:uiiate dall'assedio di Man- tova potevano dar mano a quelle che il re avrebbe condotto da Villafranca e a quelle del generale Sonnaz, ch'erano in ritirata verso Volta. Invece il re, seguendo il consiglio del generale Bava, prese la risoluzione di riprendere colle truppe che aveva a Villafranca — 4 brigate di fanteria e la divisione di cavalleria — le posi- zioni da Gustoza a Somraacampagna perdute il 23. Erano non più di 22 mila uomini, che avreb- bero dovuto vincerne quasi il doppio. Tuttavia, siccome il grosso delle forze nemi- che, era già avviato al Mincio, e in parte arri- vatovi, combattendo i piemontesi con ammira- bile ardore, quelle alture furono riconquistate» e quasi un'intera brigata nemica, trovatasi iso- lata nella Val di Staffalo, venne fatta prigioniera. Ma la bella vittoria fu pagata l'indomani a troppo caro prezzo. Radetzky, informato dell'offensiva presa dai piemontesi, fece fare un fronte indietro alla maggior parte delle sue truppe, che si ammas- savano sul Mincio, e chiamati da Verona altri 10 mila uomini, che aveva tenuto in riserva, portò tutta la massa del suo esercito — quasi 50 mila uomini — contro le posizioni che le quattro brigate piemontesi avevano ripreso. Lontanissimi dall' immaginare il triste fato che sulle loro truppe sovrastava, il re e il gè- 285 aerale Bava, presero le disposizioni, che, nel loro pensiero, dovevano compiere l'opera feli- cemente iniziata il giorno prima, una grande definitiva vittoria. Le disposizioni eran queste: il duca di Ge- nova doveva nel mattino far marciare la sua divisione da Sommacampagna e dalla Berettara nella direzione di Oliosi. 11 duca di Savoja colle brigate Guardie e Cuneo doveva da Custoza di- rigersi su Solionze. Il re e il gen. Bava colla brigata Aosta dovevano prendere Valleggio, aiu- tati, in quest' operazione, così speravano, daj gen. Sonnaz, al quale, credendolo ancora a Pe. schiera, erano state mandate vivissime solleci- tazioni. Ma Sonnaz, il quale giunse tranquillo a Volta, non diede segno di vita tutto il giorno, sebbene il rumor del cannone avesse dovuto sentirlo. Vani riescirono gli sforzi della brigata Aosta per riprendere Valleggio, dove Radetzky, com- prendendone l'importanza, aveva spedito due brigate con buona artiglieria, che favorite dalla posizione potevano, senza loro danno, fulminare gli assalitori. I duchi di Savoja e di Genova ritardarono alquanto il loro movimento per mancanza dei viveri, e invece di assalire, si trovarono assaliti. II duca di Genova, assalito di fronte e sui fianchi da quattro brigate del 2° corpo austriaco si mantenne per molte ore, con soli cinquemila uomini, nella sua posizione di Sommacampagna; costretto ad abbandonarla, e privato di due bat- taglioni, che tagliati fuori si ritirarono verso Villafranca, tenne fermo molto tempo ancora sulle alture della Berettara e di casa del Sole- li duca di Savoja, dopo avere respinto più VDlte gli assalitori, assalito ad ogni ora da L>86 truppe fresclie, dovette da Monte Godio riti- rarsi su Custoza, finché, soprafatto dal numero, dovette abbandonare al nemico anche quelle alture. La battaglia era perduta. Di 80,000 uo- mini che componevano l'esercito piemontese, soltanto una quarta parte - è bene ripeterlo - aveva preso parte ai combattimenti. Tuttavia anche con forze cosi sproporzionate si sarebbe potuto vincere, se la divisione Vi- sconti non si fosse ritirata troppo presto di là dal Mincio, se Valleggio l'osse stato fortemente occupata la sera del 23, se il De Sonnaz fosse accorso sul campo di battaglia al rumor del cannone, se il cattivo servizio dei viveri non avesse fatto ritardare le mosse dei duchi di Savoja e di Genova. Il Bava attribuisce appunto al concorso di tanti eventi contrari " che (così dice) il più esperto condottiero non avrebbe potuto pre- vedere ",la perdita della battaglia. Ma poicliè di questi eventi impreveduti ne accadono in tutte le guerre , se fosse vero come pretendono i militari di professione, che un sottilissimo filo separa sovente la vittoria dalla sconfitta, non sarebbe questa una ragione di più per finirla, per sempre, col culto della guerra e dei guerrieri? Se il valore, il buon volere e la buona causa non valgono ad assi, curare la vittoria, non é supremo dovere cer- care altrove i modi di provvedere alle sorti del proprio paese e agli interessi della civiltà? Radetzky, padrone del campo di battaglia, non credette opportuno d'inseguire il nemico nella sua ritirata su Villafranca. Durante la mischia, i soldati che vi presero parte, anche i più giovani, eccitati dall'ardore della lotta, avevano combattuto con intrepi- 287 dezza ammirevole. La giornata era stata soffo- cante - il termometro aveva segnato 30 gradi di calore - quasi tutti non avevano preso cibo fin dal mattino, l'arsura era tormentosa in tutti; eppure rimasero al fuoco molte ore, resistendo alle fatiche, alla sete, alla fame. Il Bava dice nella sua relazione, che le gior- nate del 24 e del 25 luglio saranno per sempre memorabili pel coraggio prodigioso dei nostri soldati, e per la eroica condotta di ognuno. Ed eroica sarà stata davvero, se tale è lecito chia- mare la lotta corpo a corpo, la ferina voluttà del massacro, l'assenza d'ogni pietà, per cui non si odono più i gemiti dei morenti, e correndo sull'avversario, si passa indifferentemente sul corpo dei caduti, morti o feriti. Cominciata la ritirata, la scena mutò d'aspetto. Parecchi caddero estenuati durante la marcia, né più si rialzarono. La più profonda sfiducia entrò nell'animo dei più valorosi, i quali, avendo veduto perduti in tre giorni, non ostante il co- raggio spiegato, i frutti di tutta la campagna, ne attribuivano la causa alla caparbietà e all'i- gnoranza dei capi, che. con forze superioi'i a quelle del nemico, avevano trovato il modo di mandare al combattimento un numero di soldati sempre inferiore a quello degli austriaci- Nei giorni seguenti, continuando la ritirata prima al Mincio, poi verso l'Oglio, e conti- nuando pure il cattivo servizio dei viveri, la demoralizzazione si fece più estesa. In molta l'istinto di conservazione prese il sopravento su ogni altro sentimento. 1 fuggiaschi crebbero di giorno in giorno, portando nei villaggi e nelle città dove passavano, notizie esagerate e menzognere sulle forze del nemico, e seminando dovunque la rabbia e lo scoramento. 288 Quelli che li videro allora giungere a frotte, col viso stravolto, cogli abiti stracciati e luridi. con copricapo d'ogni foggia, ben pochi con quelli d'ordinanza, e parecchi persino senz'armi, in atto or supplichevole or minaccioso per avere asilo o soccorso dai cittadini, devono avere imprecato con tutto l'animo alla fatalità della guerra, pur quando è legittima, che dà al mondo cosi triste spettacolo delle umane miserie. Disgraziatamente gli uomini, e specialmente le moltitudini, dimenticano presto le impressioni più dolorose, cosi che quei medesimi che im- precano alla guerra nei giorni che seguono una catastrofe, la invocano poco tempo dopo, come unica via per rialzare le sorti della patria e come necessaria rivendicazione dell'onor na- zionale. 289 La lotta sociale in Francia e il mancato soccorso della Repubblica air Italia La capitolazione di Milano. Un esercito, che ha subito una grande scon- fitta, dopo avere perduto, per colpa dei suoi capi, le occasioni più propizie per vincere, sfi- duciato perciò e in parte demoralizzato, non può contare su una sicura rivincita, se non pone fra sé e l'esercito nemico che lo insegue, tali ostacoli da dargli tempo di riordinarsi, di accrescere le sue file con nuovi contingenti e di rianimare lo spirito dei soldati. Tale era il caso dell'esercito piemontese, il quale soltanto ritirandosi al di là del Po, e fortificandosi intorno a Piacenza poteva sperare di rialzare le proprie sorti. Invece Carlo Alberto fece fare all'esercito in ritirata la stessa via che aveva tenuto entrando in campagna. Prima avrebbe voluto fare dell'Oglio la sua linea di difesa, ma tosto l'abbandonò e dichiarò che avrebbe difeso il passaggio dell'Adda; ma all'avvicinarsi del nemico, abbandonò anche quella posizione, e condusse l'esercito sotto Mi- lano, che promise di difendere a qualunque costo. Il Comitato di difesa, nominato negli ultimi 19 290 giorni dal Governo provvisorio, aveva preso tutte le misure per un'energica difesa. La po- polazione vi si era preparata, non coli' entu- siasmo delle giornate di Marzo, ma con animo disposto a qualunque sacrifìcio. A compimento delle misure di difesa, nel pomeriggio del 4, il re fece incendiare le case fuori del bastione, alle quali parecchi dei pro- prietari medesimi, riconoscendone la necessità, diedero fuoco di loro mano. Tutta la notte du- rarono gli incendi dei fabbricati, che valevano più milioni. Al mattino, quando corse la voce che il re aveva capitolato, nessuno voleva crederlo. E fama che chi portò in città e nei sobbor- ghi la sciagurata novella, sia stato trucidato quale traditore. Quando se ne ebbe certezza, gran folla di po- polo si portò furibonda sotto il palazzo dove il re aveva preso dimora, gridando al tradi- mento, e minacciandolo di morie. Ma la capitolazione dal punto di vista militare era incensurabile, perchè Milano, tranne si fosse voluto fare d' ogni suo quartiere una nuova Saragozza, non è città difendibile con- tro un potente esercito. « La difesa di Milano - scrisse Pisacane, av- versissimo a Carlo Alberto - sarebbe stata per l'esercito piemontese una totale rovina, e po- neva il Piemonte fuori di combattimento ». Perchè dunque Carlo Alberto aveva solenne- mente e replicatamente promesso di difenderla ? Perchè, quando il divisamento della capitola- zione doveva averlo già preso, fece abbruciare le case dei sobborghi, rovinando per sempre centinaia di famiglie ? Non e' era stato alcun tradimento nell'atto 1 291 che chiudeva così crudelmente la campagna del quarantotto, ma il troppo prolungato ri- tardo di Carlo Alberto a venire in aiuto della insorta Lombardia, le dannose lentezze del suo esercito a guerra incominciata, che diedero tutto l'agio a Radetzky di riparare colle scom- pigliate sue truppe nel quadrilatero, la falsa base di operazione scelta fin da principio, le molte occasioni di vittoria lasciate inconcepi- bilmente sfuggire, l'abbandono in cui furono lasciati durante tutta la campagna i corpi vo- lontari lombardi, le trattative avviate a mezzo del governo inglese, delle quali il segreto era qua e là trapelato, per una pace al Mincio, che il Governo provvisorio, avutane offerta da Vienna, generosamente respinse, il sacrificio del Veneto, in relazione alla vagheggiata pace al Mincio, quando il soccorrerlo avrebbe giovato alle sorti di tutta la guerra, l'essersi opposto ad ogni costo al soccorso della Francia, quando per averlo sarebbe bastata una sola parola, tutti questi ricordi dovevano fare nell'animo del popolo milanese una così sinistra impres- sione, da giustificare qualunque più severa ac- cusa sulla condotta politica e militare del re nella combattuta guerra. Avere cacciato gli austriaci da Milano, quando i milanesi erano soli e quasi senz' armi, e ve- dere ora consegnata la città a Radetzky da quell'esercito da cui si aveva ragione di atten- dere il compimento della vittoria, era cosa cosi inattesa e così enorme, da portare all' esaspe- razione il popolo più calmo. Quando fu notte, scortato da un battaglione di fanti e da una compagnia di bersaglieri, Carlo Alberto potè portarsi sano e salvo in mezzo ai suoi soldati. 292 Allora molti volsero gli occhi alla Francia, nella speranza che dal Cenisio scendesse un esercito in nostro soccorso, e. perchè questo non venne, furono proprio quegli uomini e quel partito che non l'avevano voluto, che dell'es- serci mancato si fecero sempre un'arma contro la Francia democratica, per renderla antipatica e odiosa agli occhi del popolo italiano. È bene perciò ricordare, coi fatti e coi do- cumenti alla mano, come, per colpa di chi e per quali cause mancò alla Lombardia il soc- corso della Francia nel 1848. L' Italia fa da sé. Nel capitolo di questo compendio, pubblicato nel numero della Vita Internazionale del 5 ot- tobre 1902, abbiamo citato i brani del manife- sto che Lamartine, in nome della Repubblica francese, indirizzò all' Europa, che conteneva l'esplicita dichiarazione del proposito della Francia di armarsi - il che significava anche intervenire - se fosse stato contestato all'Italia il diritto di consolidare la sua nazionalità. E, aggiungendo i fatti alle parole, il Governo provvisorio della Repubblica francese, all'in- domani della nostra insurrezione delle Cinque giornate, riuniva a Grenoble l'esercito detto delle Alpi, che aveva la missione di varcare le frontiere e accorrere in Lombardia alla prima chiamata dei lombardi o del re di Piemonte. E Mazzini, che passando da Parigi pochi di dopo per venire in Italia, aveva avuto con La- martine un colloquio, nel quale gli furono date le più belle speranze, scrisse nei suoi Cenni e Documenli intorno alla Insurrezione Lombarda e alla Guerra Regia del 184S queste precise pa- 293 role : <^ dico gli aiuti di Francia a quei giorni erano, per chi li avesse voluti, certi, imman- cabili ». Ma gli aiuti di Francia Carlo Alberto non li voleva, perché al seguito di essi vedeva sor- gere in Lombardia il fantasma della Repub- blica. Abbiamo ricordato più volte i lunghi, cru- deli indugi del re a venire in soccorso dell'in- surrezione lombarda; se finalmente vi si decise, fu perchè non poteva dubitarsi che « dopo gli avvenimenti di Francia il pericolo della pro- clamazione della Repubblica in Lombardia, non potesse essere vicino. > Sono parole del ministro Pareto, nella nota con cui annunciava al Governo inglese la presa risoluzione. E per allontanare quel temuto pericolo, che un aiuto della Francia ai lombardi e ai veneti poteva far nascere, nel suo famoso proclama ai popoli della Lombardia e della Venezia, in cui dichiarava che le sue armi venivano a por- gere « nelle ulteriori prove quell'aiuto che il fratello aspetta dal fratello , l' amico dall'a- mico ^>, Carlo Alberto diceva di fidare « nel- l'aiuto di quel Dio « che co^n si meravigliosi impulsi pose V Italia in. grado di fare da sé >. Era un programma. Da quel giorno l'Italia fa da sé divenne la parola d'ordine del partito monarchico, la su- prema norma della politica del Governo pie- montese e del Governo provvisorio di Milano, se questo, come proponevasi. voleva informare la sua condotta alle intenzioni del re sardo. Né a lui tardarono in proposito gli alti ammo- nimenti. Mandando in Francia un suo incaricato a far acquisto di fucili, il Governo sorto in Milano 294 lo muniva d'una lettera per quel Governo prov- visorio. La lettera, che porta la data del 27 marzo, ed è negli atti del Governo provvisorio di Lom- bardia, terminava con queste parole, che allu- devano alla circolare di Lamartine: « Appar- tiene al governo, che ha dichiarato cosi solenne- mente di aiutare tutte le nazionalità oppresse, di affrettarne la liberazione ; appartiene al governo della nazione la più coraggiosa e la più generosa del mondo, di trovare il mezzo di aiutarci in circostanze cosi difficili ». L'esercito delle Alpi, formatosi, come s'è detto a Grenoble, aveva appunto lo scopo a cui il Governo provvisorio di Lombardia accen- nava nella sua lettera. Era proprio ciò che Carlo Alberto non voleva a nessun patto ; e delle rimostranze ch'egli fece su questo pro- posito al Governo provvisorio di Lombardia, fu data comunicazione anche a Sir Abercromby, ministro inglese a Torino, il quale in data 14 aprile scrisse a Lord Palmerston, capo del Ga- binetto inglese e ministro degli esteri, in que- sti sensi : « Il Governo provvisorio di Milano aveva spedito al Governo provvisorio di Francia un indirizzo per domandargli assistenza. Tosto Carlo Alberto rimpro- verò acremente il Governo di Milano e gli intimò l'ordine (?) di ritirare immediatamente la sua do- manda di assistenza dalla Repubblica Francese e pro- testare contro ogni atto che avrebbe per oggetto l'in- tervento d'una potenza straniera qualunque. « In seguito il questa grave ammonizione, il niar- cliese di Brignole, a Parigi, rinnovò a Lamartine la formale assicurazione, non solo da parte del governo sardo, ma anche da parte degli altri governi italiani, che l'Italia tutta respingeva ogni straniero inter- vento ». 295 La Repubblica francese e l'Italia. Che il Governo provvisorio della Repubblica Francese avesse tutte 1^ intenzioni di venire in aiuto nostro anche colle armi, abbondano le prove nei giornali, nei dibattiti delle Ca- mere e nei documenti diplomatici di quel tempo. Rispondendo ai primi di aprile all'indirizzo presentato a quel governo dalV Associazione Na- zionale italiana, (ondata poco prima a Parigi, per iniziativa di Mazzini, che ne fu eletto presi- dente, nel momento della partenza dei suoi membri per l'Italia, Lamartine disse: « Andate a dire all'Italia che se fosse assalita nel suo suolo e nella sua anima, nei suoi confini e nelle sue libertà, e le vostre braccia non bastassero a difenderla, è la spada di Francia che noi le of- friremmo per preservarla da ogni invasione ». Un linguaggio anche più promettente tenne in quel tempo il Lamartine al gen. Pepe, prima della di lui partenza per l'Italia. È il Pepe me- desimo che nelle sue Memorie scrive : « Nel momento che si recava in Consiglio, Lamar- tine mi disse, in presenza di due vecchi gene- rali, che la Francia era pronta a inviare cen- tomila uomini in Italia per sostenere la causa della sua indipendenza ». Ma di cotesto aiuto non soltanto Carlo Al- berto e tutto il partito moderato non volevano saperne, ma neppure la maggioranza dei re- pubblicani, tutti convinti che le forze italiane fossero più che sufficienti alla cacciata dello straniero. Manin, in nome di Venezia, aveva chiesto al Governo provvisorio della Repubblica francese 296 soltanto l'appoggio morale della Francia ; tanto bastò perchè la Patria di Firenze nel suo nu- mero del 24 aprile manifestasse la sua indigna- zione scrivendo: « Come ! il governo veneto implora il aoccorso della Francia, dimenticando che la risurrezione e il rÌHor- gimeuto dell'Italia si riassumono in queste parole sacramentali : h'Italia farà da sé? Queste parole sono il simbolo di fede di tutti gli italiani ». L'il aprile Lamartine, interpretando le pa- role un po' riservate del governo della Lom- bardia come l'espressione d'un voto riguar- doso verso il re sardo, e credendo il momento opportuno per mantenere le promesse fatte nel suo manifesto all'Europa, mandò all'incaricato della Francia in Torino, signor Bixio, una nota in cui diceva : « Gli eventi d'Italia c'inquietano per farci pensare all'eventualità d'una discesa d'un corpo di opera- zione in Piemonte, col consenso del governo sardo, 0 anche anticipando, occorrendo, questa domanda... Pro- curate di sapere se nel caso d'una marcia d'un corpo d'esercito francese per la Savoia, i forti che si tro- vano sulla strada della Maurienne farebbero fuoco contro di noi ». La risposta a questo dispaccio, ch'era stato approvato all'unanimità dai membri del governo, non si fece attendere. Bixio (era naturalizzato francese, ma fratello di Nino Bixio) il 15 di aprile rispose : « L'intervento della Francia in Italia, senza che il suo soccorso sia invocato, e a dispetto delle proteste spesso ripetute, sarebbe considerato da tutti i partiti come un atto di slealtà indegno della Francia »... Nello slesso giorno Bixio mandava altra sua nota, in cui diceva : 297 « L'interveuto francese iu questo momeuto sarebbe il seguale della guerra generale.,. Ci va dell'influenza e dell'onore della Repubblica ». Comunicando questo dispaccio (scrive Gar- nier-Pagès nella sua Histoire de la Revolution da 18i8) al Consiglio, Lamartine non potè tra- lasciare d'esclamare : « Sono ciechi e pazzi ! ». Poche righe dopo in quel medesimo volume, che tratta degli avvenimenti d'Italia, Garnier- Pagès - la cui testimonianza è qui autorevo- lissima, perchè a quel tempo era membro del Governo provvisorio di Francia — scrive : « Tutte le offerte di soccorso fatte all'Italia da Lamartine, iu nome del Governo provvisorio della Repubblica francese, essendo state respinte come inu- tili o pericolose, questo governo dovette chiudersi nei limiti che servivano di guida al suo ambasciatore. Non penetrare in Italia senza esservi chiamati; prepa- rare un potente esercito, ond'esser pronto a volare al silo soccorso al primo grido di sventura ». Riunitasi in maggio l'Assemblea Costituente francese, e successa al Governo provvisorio la Commissione esecutiva di governo, corse dì nuovo la voce in alcuni circoli di Torino della possibilità dell'intervento d'un esercito fran- cese in Italia. Ne fu fatto tema d'interpellanza alla Camera; ed ecco in quali sensi la Gazzetta Piemontese, giornale ufficiale . ne parla nel numero 13 maggio: « Il deputato savoiardo Bailleul, interpellando il ministero sui rumori d'un intervento francese in Pie- monte, si esprime in questi termini: « Noi doman- diamo al ministero, se ha ottenuto dal governo fran- cese delle spiegazioni precise a questo proposito, e se ha preso delle misure per difendere la Sardegna con- tro una nuova invasione ». Il ministro degli affari 298 «steri (Pareto) risponde : « L'esercito francese non entrerà a meno cbe noi lo cliianiiamo, e siccome noi non lo chiameremo, esso non entrerà ». V'era tuttavia nella parte democratica del- l'Assemblea Costituente francese una forte pro- pensione a spingere il proprio governo ad una politica di solidarietà coi popoli lottanti per la loro emancipazione, a cominciare dall'Italia. Fu per rispondere a queste generose impa- zienze, che Bastide, divenuto Ministro degli Esteri nella Commissione esecutiva, espose la linea di condotta che la medesima intendeva di seguire verso i popoli vicini, la quale non differiva da quella già tracciata dal Governo provvisorio, di cui la Commissione esecutiva, circa la politica estera, poteva dirsi la con- tinuazione. Disse che il principio della sovranità del po- polo, ch'era la sua forza, la Francia l'aveva proclamato non soltanto per sé, ma per tutti ; che sarebbe stato violarlo « andare presso i popoli vicini a far votare l'emancipazione e la libertà all'ombra delle nostre baionette ». Ri- cordava come la Francia, per aver cominciato al tempo della prima rivoluzione a far propa- ganda repubblicana colle armi, aveva aperto la via alle vittorie imperiali, i cui effetti furono la perdita della libertà all'interno e delle simpa- tie dei popoli al di fuori. Terminava con que- ste parole : « C'è d'uopo dunque di rassicurare i popoli, che noi non aspiriamo ad alcuna conquista, a verun in- grandimento di territorio. Bisogna che l'Italia, che la Germania, convinte del nostro disinteresse, ci de- siderino, ci domandino come loro alleati; bisogna che noi attendiamo coll'arme al braccio, che esse ci chia- mino per compiere in comune l'opera dell'emancipa- zione dei popoli ». 299 Più esplicite dichiarazioni faceva poclii giorni dopo all'Assemblea, nella seduta del 23 maggio, Lamartine, membro pur egli della Commissione esecutiva. Dopo aver dichiarato quali principi avevano inspirato il Governo provvisorio fin dai primi giorni, dopo avere detto che * il rispetto delle nazionalità, il diritto e nello stesso tempo la libertà dei popoli » vietavano alla Francia « di portare la libertà agli altri popoli », pronun- ciava queste nobili parole : « Ma se questi popoli fossero troppo deboli nei loro diritti legittimi, in quel diritto di rinascimento della nazionalità italiana, che è così legittimo... se questa indipendenza, se questo diritto fossero assa- liti, la Francia è là, è ai piedi delle Alpi, è armata; essa dichiara altamente a voi, suoi amici, che al primo vostro segnale essa valicherà le Alpi, e verrà questa volta a porgervi la mano liberatrice della Fran- cia ». L'indomani, il presidente del Gomitato, che aveva esaminato i documenti diplomatici pre- sentati dal governo, portava all'Assemblea il risultato delle sue deliberazioni, cosi formu- lato : « L' Assemblea nazionale invita la Commissione esecutiva a continuare a prendere per regola di sua condotta i voti unanimi dell'Assemblea, riassunti in queste parole : Patto fraterno eolla Germania ; ricosti- tuzione della Polonia indipendente e libera : riscatto del- l'Italia ». L'unanimità dei rappresentanti votò con en- tusiasmo questa deliberazione. É dunque una impudente menzogna l'asser- zione, che fu per tanto tempo ripetuta in libri 300 e giornali nostri, che il solo amico che l'Italia abbia avuto in Francia, sia stato, dal '48 in poi, Napoleone III; è falso che la Repubblica fran- cese, quando era governala da repubblicani, richiesta di aiuto da governi italiani, abbia ri- sposto con un rifiuto. Se allora e qualche tempo dopo una domanda chiara di amichevole intervento fosse stata fatta alla Francia dal Governo provvisorio di Lombardia o dal Governo di Venezia, non v'ha dubbio che sarebbe stata esaudita, ma il Go- verno provvisorio di Lombardia, allora tutto infervorato per la fusione col Piemonte, rispose al voto dell'Assemblea Francese, colla destitu- zione del suo rappresentante a Parigi, Frap- poni, perchè aveva espresso l'opinione che la Francia sarebbe intervenuta, « anche contro il parere di Carlo Alberto, se la Lombardia e il Veneto l'avessero chiamata » ; e Manin avendo interpellato, in nome di Venezia, gli altri go- verni italiani intorno alla domanda di aiuto alla Francia, aveva avuto, da tutti, risposta contrariissima. Quando, avvenuti i disastri, il Governo prov- visorio di Lombardia si decise, in extremis, a chiedere il soccorso della Repubblica, la situa- zione della Francia non era più quella dei primi mesi. Un mese prima di Gustoza era avvenuta l'insurrezione proletaria di giugno, la quale portò alla causa della Repubblica un colpo così forte, da rendere possibile qualche anno dopo il tradimento che la uccise. Per questo, e per gli effetti ch'essa ebbe nelle vicende d'Europa» è d'uopo accennarne qui le cause principali e il carattere. 301 La lotta sociale in Francia. L'insurrezione di febbraio, iniziala da stu- denti e proletari, riesci vittoriosa, come ab- biamo a suo tempo ricordato, grazie special- mente alla parte che nell'ultimo giorno vi prese la Guardia Nazionale. Se essa non avesse fatto scudo del proprio petto agli insorti, questi sa- rebbero stati terribilmente schiacciati dalla truppa assalitrice. Nondimeno i proletari, fra i quali il socia- lismo aveva trovato la massima parte dei suoi proseliti, credettero di essere stati i soli vitto- riosi, e come tali avere il diritto di dettare la propria volontà al Governo provvisorio e alla Francia. Fin dall'indomani con imponenti dimostra- zioni, che poi si ripeterono più volte, volevano garantito il diritto al lavoro, sostituita la ban- diera rossa alla bandiera tricolore, creato un Ministero, denominato del progresso, a cui fosse dato l'incarico dell' « organizzazione del lavoro », sulle basi già da tempo tracciate da L. Blanc. Il Governo provvisorio - ch'era stato formato con uomini dei diversi partiti, che avevano più o meno contribuito alla caduta della monar- chia di Luigi Filippo , e per cui entrarono bensi L. Blanc e l' operaio Albert , ma nel quale i repubblicani moderati formavano la maggioranza - non volle saperne né della ban- diera rossa, né d'un ministero socialista. Ma per guadagnar tempo e calmare intanto l'effer- vescenza delle masse da cui si vedeva ogni tratto assalito, istituì una Commissione di go- verno pei lavoratori, incaricata di studiare i modi di migliorarne le sorti. 302 Dal luogo dove s'insediò, fu chiamata la Cora- missione del Lussemburgo. Il governo provvisorio ne diede la presi- denza a L. Blanc e la vicepresidenza al suo fido Acate, l'operaio Albert, pensando così di liberarsi di due colleghi imbarazzanti e peri- colosi. Dal canto suo il Blanc se ne prevalse per fare del Lussemburgo una cattedra di pro- paganda ufficiale contro la società borghese, che aveva nel governo provvisorio i suoi caldi difensori. L. Blanc nelle sue conferenze non si stan- cava di dipingere il presente ordinamento so- ciale, e la concorrenza che ne è la base, come fonte di tutte le iniquità e di tutti i mali, di cui i proletari erano vittime; ma dopo avere dichiarato che non potevanq aver salute se non dopo distrutto fin dalle basi la società presente, raccomandava ai suoi ascoltatori la virtù della pazienza, della tolleranza e la fidu- cia nei destini della Repubblica. Intanto la crisi economica, conseguenza della insurrezione e delle frequenti manifestazioni di carattere rivoluzionario, gettava sul lastrico di Parigi molte migliaia di uomini, privi di lavoro. Il governo provvisorio aprì per essi gli Ate- liers nationaiix, occupandoli in lavori di sterro in Parigi e nei sobborghi. Nel suo pensiero dovevano essere, sotto l'alta sorveglianza del ministro del Commercio, un contraltare alla propaganda socialista di L. Blanc, che aveva nel suo piano di organizza- zione del lavoro gli Ateliers nationaux di pro- duzione. Divennero invece la sorgente del sol- levamento del proletariato parigino contro la Repubblica. 303 A difesa della società e della Repubblica, e per non aggravare di soverchio servizio la Guardia Nazionale, il governo provvisorio, che non teneva un soldato entro Parigi, formò 24 battaglioni, di mille uomini ciascuno, reclu- tandoli fra quei giovani, dai 15 ai 20 anni, che, nel maggior numero, non hanno un'occupa- zione fissa, che vivono di vagabondaggio o di furto, e che non mancano mai di prendere parie a tutte le sommosse. Appartenenti all'in- fimo strato del proletariato, divennero nei giorni della lotta i più feroci combattenti con- tro i proletari insorti. Fin dai primi giorni il Governo provvisorio aveva abolito le tasse più impopolari, quali la imposta del sale e il dazio di consumo in Pa- rigi ; ma poi, peiwfar fronte alle necessità finan- ziarie, decretò una sovrimposta del 45 per 100 sulle imposte dirette, la quale andò a colpire specialmente la popolazione rurale, che perciò divenne presto quasi tutta ostile alla Repub- blica. Proclamato il suffragio universale, furono eletti nelle campagne, a rappresentanti all'As- semblea Costituente, parecchi eredi della vecchia aristocrazia, i quali colla ristretta legge censitaria della monarchia orleanista giammai avrebbero potuto metter piede in una Camera francese. Di orleanisti e legittimisti ce n'erano in buon numero; tuttavia, facendo di necessità virtù, erano tutti, o quasi tutti, ben disposti per la conservazione della Repubblica. Ma erano ad un tempo ben decisi ad opporsi a qualunque concessione alle tendenze socialiste. Fra i repubblicani moderati, che formavano la maggioranza della Camera, molti sentivano la necessità, e anche l'interesse per la Repub- 304 blica, (li fare qualche cosa a vantaggio dei la- voratori, ma non volevano nello stesso tempo recar danno agli interessi «iella borghesia, di cui erano i genuini rappresentanti; perciò, pur ammettendo che la Repubblica dovesse met- tersi per quella via, intendevano che vi si do- vesse incamminare con molta circospezione. Cosi nella composizione della Commissione esecutiva, che l'Assemblea elesse in sostituzione del governo provvisorio, fecero entrare tutti i suoi membri, compreso il capo dei radicali, Ledru-Rolin, ma ne esclusero L. Blanc e Al- bert, i due socialisti. Venne il 15 maggio, quando l'antico partito rivoluzionario, con Barbès e Blanqui alla testa, invase l'Assemblea per proclamarne lo sciogli- mento e instaurare un governg ultra-radicale e sociale. Tanto bastò, perchè la maggioranza dei re- pubblicani non vedesse più salule che in una politica di resistenza allo spirito democratico. In questa politica essi trovaronsi in pieno ac- cordo coi rappresentanti degli antichi partiti monarchici; da qui la guerra al socialismo e all'indocile proletariato. . Le giornate di giugno. Gli opifìci nazionali (ateliers nationaux) fu- rono il primo obbiettivo di questa guerra. Re- pubblicani anfìbii e reazionari! monarchici ve- devano in essi una concessione alle idee so- cialiste, e nei centomila e più uomini che vi erano registrati, i quali erano sussidiati pur dopo cessati i lavori di sterro, un'armata di- sponibile per una sommossa, e decisero di chiuderli. 305 Invece di una sommossa, provocarono così una spaventevole insurrezione. Nulla sarebbe stato più facile che il |)rc- venirla. perchè non erano mancati alla Com- missione esecutiva segni e avvertimenti dei propositi di lotta che fermentavano nelle turbe fameliche. Non pensarono quei repubblicani che è ben triste battesimo, per una Repubblica che nasce, macchiarsi di sangue cittadino. Dal canto loro i proletarii, mettendosi soli in una lotta che non poteva finire senza una loro tremenda disfatta, si chiudevano da sé me- desimi la via a far trionfare da li a non molto la loro causa davanti al suffragio universale. Ma la fame non ragiona, e molte delle fami- glie dei combattenti di giugno si trovarono ad un tratto, grazie' al decreto che chiudeva gli opifici nazionali, prive di pane. Il 21 giugno uscì quel decreto. Una deputa- zione di lavoratori aveva prevenuto il ministro del commercio, che quel decreto sarebbe stato il segnale della lotta. Nondimeno tutto quel giorno e rindomani il governo non prese alcun provvedimento né di prevenzione, né di difesa. La notte del 22 tutti i quartieri dell'est di Parigi, sulle due rive della Senna, furono riem- piti di barricate, molte delle quali più massiccie e più imponenti di quelle del febbraio. Il mattino del 23 l'illustre Arago, membro della Commissione esecutiva, si pi'esenfò agli insorti sulla piazza del Panteon, irta n alita, rispetto ■.\\\:\ lilteidi. degli italiani. Nt>i ciò actroidiaiiio be, non di nome ma di fatto, po- teri iliiniitali. 11 nuovo ministero,, presieduto dal principe Scliwarzenberg, trastullò l'Assem- blea costituente, che fu trasferita - per essere meglio dominata - a Kremsier, in Moravia, a di- scutere i principi generali d'una C.osliluzione, che non fu mai volala, Per riprendere del despotismo anche le forme, r imperiale governo attendeva soltanto che fosse spenta la voce delia libertà anche in Un- garia; ciò che si pro()oneva di ottenere, se non bastavano le forze proprie, coll'aiuto dell'au- tocrate russo, il quale già si era ripetutamente offerto alla Prussia e all'Austria, di schiacciare colle armi sue l'idra rivoluzionaria. Della rivoluzione ungarica parleremo più lardi. 323 Agitazioni kivoluzionarie nella glikmania kenana e meridionale. Non possiamo, senza alterare troppo le pro- porzioni di questo compendio, far cenno di tutti i tumulti, agitazioni e rivolte che avven- nero in ciascun Stato di Germania in quel ti- pico anno rivoluzionario. Qui basterà ricordare che mentre nella mag- gior parte dei paesi tedeschi le agitazioni e le rivolte ebbero per iscopo la conquista «Iella libertà costituzionale e l'unione federale, nella Germania renana invece, nel Baden e nel Wiir- temberg, il moto rivoluzionario ebbe carattere repubblicano, con infusione qua e là di ccmu- nismo. Un Congresso cli'ebbe luogo a Francolorte sul Meno, verso la metà di giugno, a cui pre sero parte più di 200 delegati, dichiarò che la repubblica democratica era l'unica forma di governo durevole per la Germania; e per pre- pararla istituì Comitati circondariali in molte parti di Germania. Non ebbe vita vigorosa, ma purtroppo breve, che il Comitato di Colonia, di cui facevano parte tre membri della Lega dei comunisti, fra i quali Carlo Marx. Un Comitato centrale fu più tardi stabilito a Lipsia, che in un proclama esortava i Co- mitati distrettuali a curare l'armamento degli operai. Il 17 settembre, in seguito ad un appello «Iella Neue Rlieinische Zeitimg di Carlo Marx, da 8 a 10 mila persone si adunarono a Worringen, su un prato vicino al Reno. Dopo che ebbero parlato Engels e Ferdinando Lassalle , l'adu- 324 nanza si pronunciò per la repubblica rossa, de- mocratico-socinle. Poclii giorni dopo, essendo stali arrestali al- cuni dei capi del movimento, una parte del popolo di Colonia si levò a tumulto, e comin- ciò a erigere barricale. L'indomani la città fu posta in stalo d'asse- dio, la Nenc Rlìeinische Zeifiuig di Marx ed altri tre giornali democratici furono soppressi; vie- late le riunioni e le associazioni, e Marx ed altri agitatori arrestati e processati. Il processo avvenuto qualche mese, dopo fu per Carlo Marx, un trionfo. Da accusato egli si fece accusatore. Con stringente argomentazione dimostrò che il governo, mettendosi in lotta contro. l'Assem- blea, aveva violato la Costituzione, s'era messo fuori della legge, e resa perciò legittima la re- sistenza. La conclusione fu clic i giurali man- darono assolti tutti gli accusati. Carlo Marx ne approfittò per recarsi a Lon- dra, dove, non nutrendo più speranza nell'av- venimento prossimo della repubblica rossa in Germania, rivolse tutta la sua mente a dare una base scientifica al comunismo, che, per non spaventar la gente, ebbe mutato il nome in collettivismo. Dove la re|)ubblica fu proclamata, per la se- conda volta nel medesimo anno, ed ebbe per quattro giorni un simulacro di governo fu nel granducato di Baden. La vicinanza della fron- tiera svizzera facilitò l'entrata d'una schiera di emigranti tedesclii, capitanati da un giornalista badese, Struve. Questi pose il suo quartiere generale nella città di Lòrrach, dove emanò decreti e proclamò la legge marziale. Ognuno dei suoi decreti, portava quest'epi- grafe : Benessere, istruzione e libertà per tutti. 325 Il 25 le due colonne, che componevano tutta la forza della improvvisata Repubblica, vennero assalite e sconfìtte presso la piccola città di Staufen dalle truppe del granduca, condotte dal ministro della guerra in persona. Lo Struve arrestato e condannato ;" ma nel maggio dell'anno seguente, liberato da una nuova insurrezione assai più grave, avvenuta a Karlsruhe, potè prender parte a quel Comitato insurrezionale. Questo però si limitò a procla- mare la Costituzione di Francoforte. Emigrati, radicali d'altre parti di Germania e polacchi corsero ad appoggiare quest'ultimo tentativo del rivoluzionarismo tedesco. Vani sforzi. Truppe prussiane e imperiali assalirono il 14 giugno da più parti gli insorti, che dopo uno sfortunato scontro a Wagherìs dovettero ritirarsi, riparando nella fortezza di Rastatt. Là assediati, resistettero una settimana ; ma infine, per diffetto di viveri e munizioni, do- vettero arrendersi a discrezione. Il granducato di Baden, posto in stato d'as- sedio, rimase occupato per lungo tempo dalle truppe prussiane. Nel Wùrtemberg, furono parimenti truppe prussiane, giunte in tempo in buon numero, che prevennero lo scoppio d' una insurrezione re- pubblicana. L'assemblea nazionale di Francoforte. Lo spirito di libertà, che scoppiò impetuoso, a cominciare dal marzo, da un capo all'altro di Germania, fece pur sentire il bisogno del- l'unità. Fu dal ducato di Baden, da questo centro fin allora di agitazioni democratiche , che 32(5 pai ti il primo appello per un Parlamento te- «lesco; e poche settimane dopo l'Assemblea che doveva siirroware 1' opera dell' antica Dieta , come rappresentanza, non più dei governi, ma delle popolazioni, era riunita a Francoforte. « Fn una cloUe or«! più solonui della storia tiulosca » scrive uno storico iiiipcMialista • quando il IH niaufnjio i r.ipprosentanti d(dla nazione, eletti spontaneamente e liljerainente, al snono delle campane, al riniliomUo dei cannoni, ed in mezzo alla folla fiin1)ilante, dal Ri'Uier, palazzo mnniciiiale di Francoforte, si recarono alla chiesa di San Paolo: l'abitante dell'Ilolstein camminava accanto al tiglio dell'Argovia, qnello dei Palatinato avanti .'lU'inviato della Slesia, il rappre- sentante della Franconia al lato del Tirolese. Fiducia entusiastica, speranze esuberanti erario i sentimenti ci»i quali si salutarono quegli uomini, che colia loro riunione diedero forma per la prima volta all'unità delia patiia desiderat.a con tanto ardore ». (/./ periodo (Iella Jlcxtaurazìone e della Rirolnzìone — ISLo-lHól, del Dott. Teodoro Flathe. Libro III, I. 2)». Eletta nei giorni di entusiasmo popolare, :iveva fra' suoi membri la maggior parte di coloro che avevano attestato colla prigione e coll'esilio il loro amore alla libertà. Come espressione del tempo, predominavano nei primi mesi i rappresentanti democratici; ma quando la reazione cominciò a prevalere in Prussia e in Austria, le deliberazioni dell'As- semblea nazionale ne subirono il contraccolpo. Quando si trattò di istituire un governo fe- derale provvisorio, sebbene fossero molti i progetti portati in discussione, a nessuno venne in mente di fondare in uno solo, come si fece in Italia, tutti i diversi Stati tedeschi. « L'uni til della ])atria che noi desideriamo » disse un() degli oratori di destra, il Radowitz « è forse que- sta tirannic.iimità, che annienta lo spirito proprio di ogni popolo e le sue libertà provinciali ? Unità e va rietà tntt'iusierae, tale è la natura medesima della Germania, e perchè questa opera nostra sia durevole, bisogna clic questi due eleiueuti non mancbino ». Questo rispetto delle formazioni storielle e delle autonomie locali, clie non doveva essere menomato neppure dalla Costituzione del nuovo impero germanico, sorto dalle grandi vittorie del 1870-71. è una delle forze vive della Ger- mania, la quale, pur in tempo di reazione poli- tica, non ne ha impedito lo sviluppo econo- mico, intellettuale e morale. L'unità accentra- trice della Francia, imitata stolidamente in Ita- lia, fu invece per molto tempo ostacolo, non ostante le molte rivoluzioni, alle libertà locali e al benessere delle popolazioni. L'Assemblea nazionale decise solo clie le Costituzioni dei singoli Stati non potessero in nessun punto contraddire ai principi stabiliti nella Costituzione, che l'Assemblea avrebbe vo- talo per tutto il popolo tedesco. I principi stabiliti nella Costituzione fede- rale, che. dopo tre mesi di discussione, fu vo- tata in prima lettura il 30 ottobre, erano cal- cati su quelli della Costituzione belga: egua- glianza davanti alla legge, indipendenza della Giustizia, autonomia dei Comuni, rappresen- tanza del popolo in ogni Stato, libertà di stampa, d'associazione, di culto e di insegnamento. Fin dal principio dei suoi lavori l'Assemblea aveva pensato all'organizzazione d'un potere federale provvisorio, e fu decisa la nomina di un Vicario dell'impero, come capo del potere esecutivo, e fu eletto a tal posto l'Arciduca Giovanni d'.Vustria. a quel tempo assai popo- lare in tutta la Germania. 328 Sorta la contesa fra i partigiani d'una piccola Germania, con esclusione dell'Austria e della Prussia, cioè costituita da Stati formati da sole popolazioni tedesche, e i fautori d'una grande Germania, prevalsero i secondi, i quali procla- marono il principio, che fin dove si parla lin- gua tedesca ivi dovesse estendersi l' impero germanico. Era un'avviso alla Francia, circa l'Alsazia e una parte della Lorena; ma il prin- cipio della sovranità territoriale , emanante dalla lingua parlata, era da quei supernaziona- listi violato, quando pretendevano legittimare e difendere i possedimenti dell' Austria in Italia. Prendere e non mai cedere era la divisa di quei patriottissimi. Fu perciò da essi accolta con grande sdegno la notizia dell'armistizio conchiuso, per intromissione dell'Inghilterra e della Russia, fra la Prussia e la Danimarca, che arrestava le truppe prussiane nella guerra per la conquista dello Sleswig-Holstein. Tuttavia l'Assemblea ratificò, per timore del peggio, l'armistizio con 258 voti contro 237. Fu questo voto, come i deputati dell'opposi- zione avevano annunciato, il segnale d'un'in- surrezione. Una numerosa Assemblea popolare fu tenuta alle porte della città, nella quale furono dichia- rati traditori verso la libertà i deputati che non avevano votnto contro l'armistizio di Malnioe (tale il nome della località dove l'armistizio era stato conchiuso). L'indomani molte vie erano piene di barri- cate. Il potere centrale aveva fatto venire truppe assiane, austriache e prussiane. La lotta fu aspra e sanguinosa. Le truppe, padrone delle grandi vie e delle 329 piazze, conquistarono a una a una le barricate, fulminandole a cannonate. La lotta cominciata alle due. sospesa per un'ora alle cinque, ri- presa alle sei, terminò colla proclamazione dello stato d'assedio. Gli insorti ebbero molti morti e feriti; ma anche l'Assemblea ebbe le sue vittime. Due deputati della maggioranza, il principe di Lichnowski e il sig. D'Auerswald, che reca vano un messaggio al Vicario dell'impero, ri- siedente fuori di città, vedendosi inseguiti da schiere di insorti, si rifugiarono nella casa di un ortolano. Ricercati anche là dentro e sco- perti, l'Auerswald.dopo colpito da una palla alla testa, fu massacrato a colpi di falci e di mazza, e il principe, condotto già ferito in mezzo a un prato, fu bersaglio di quelli indemoniati, che a uno a uno vennero freddamente a sparare a bruciapelo la loro arma contro il suo petto. Qui, come a Vienna e a Parigi nelle ultime sollevazioni, si vide la gran differenza che corre fra le insurrezioni, che i diritti e la coscienza di tutto un popolo e gli stessi interessi della civiltà giustificano, e quelle invece che sono il prodotto di un malinteso orgoglio nazionale, o del fanatismo di setta, o dell'odio di classe, o di un subitaneo impulso della parte meno edu- cata della popolazione, sedotta da tribuni, a cui la passione di parte fa velo al giudizio. Nelle prime predominano i sentimenti più elevati, e sono solitamente immuni da eccessi ; nelle altre, invece, condannate fin dal principio a inevita- bili sconfitte, la brutalità e la ferocia accom- pagnano o seguono quasi sempre atti di grande coraggio, con grave danno della causa per cui era avvenuta la lotta. La rivolta nazionalista di Francoforte era :ì!() stata falla contro l'Assemblea, ma la sinistra ne portò la pena, col vedere menomata da quel giorno la sua influenza, perché, avendo essa proclamalo il principio della sovranità na- zionale, fu creduta responsale delle violenze della plebe. L'autorità stessa dell'Assemblea nazionale scemò mano mano che nei diversi Stati di Ger- mania la reazione riprendeva vif^ore. I sovrani degli Stati piccoli e medii di (ler- mania non avevano nessun gusto per un'As- semblea, che aveva il mandato dì fissare i li- miti della loro autorità. Il re di Prussia la vo- leva in vita, soltanto a patto e col pensiero di esserne egli il capo; lo stesso pensiero guidava il governo austriaco. Dopo lotte vivissime il partito prussiano vìnse nell'Assemblea. La rivalità passò nei due governi, e fini qualche anno dopo in aperto conflitto. La Prussia s'era messa alla testa dei piccoli Stati della Germania, di cui convocò un Parla- mento. L'Austria colla famosa dichiarazione di 01- mùtz (1.5 nov. 18.50) ne intimò lo scioglimento. La Prussia, sentendosi militarmente più de- bole, cedette, ma per prendere molti anni dopo, quando si sentì ben forte militarmente e poli- ticamente, la sua strepitosa rivincita , colla espulsione dell'Austria dalla nuova Germania. Il quarantotto finì colla sconfitta della causa della libertà in quasi tutta la Germania. La de- mocrazia soccombette davanti alla forza, per- chè, mancando di senso politico, prese i suoi desideri per realtà ; perchè presunse troppo 331 delle sue forze, e perchè ricorrendo alla vio- lenza quando, conquistato il diritto elettorale, la strada era aperta alle pacifiche riforme, dava causa vinta al potere regale, che aveva a sua disposizione soldati e cannoni. Ma i moti insurrezionali che avevano scosso da cima a fondo tutta quanta la Germania, non furono vani. Le idee e i sentimenti da essi su- scitati, lasciarono tale solco nell'animo delle popolazioni, specialmente nella parte colta, che i principi sentirono, non ostante le loro vitto- rie, di non potere più regnare e governare a dispetto dei popoli. Comprendendo che nessuna forza umana po- teva più spegnere i principi di nazionalità e di libertà popolare, che attingevano forza dalle medesime persecuzioni, vollero farsene cam- pioni; e per vincere chiamarono in aiuto la democrazia. Questa non mercanteggiò il suo concorso, ma dopo la vittoria, come altre volte era già avvenuto, fu messa in disparte. Il nuovo impero germanico, al pari del regno d'Italia, come vedremo a suo tempo, non ebbe altra origine. 332 Congresso per la pace universale a Bruxelles Gli apostoli d'albioni:. Il 11) settembre 1848, alle ore 9 del mattino, una nave, chiamala La Girafe, lasciava le sponde del Tamigi con a bordo centosessanta persone, fra le quali trenta signore. Una immensa ban- diera bianca, simbolo della pace, issata sul- l'albero maestro, sventolava vicino al vessillo britannico. Attraversando quel medesimo tratto di mare, solcato tante volte nei secoli da navi da guerra, destinate a far sentire alle altre na- zioni col ferro e col fuoco la voce della po- tenza britannica, recavansi quei veleggianti sul continente a portarvi il primo grido inter- nazionale di abbominio alla guerra e alla sua preparazione. Era noto lo scopo del loro viaggio; eppure nel scendere il Tamigi La Girafe, avendo incon- trato alcune navi da guerra, gli equipaggi di queste salutarono con Evviva gli amici della pace. Nessuno di essi aveva un mandato ufficiale, Alcuni erano pensatori', che avendo veduto nella natura umana le tendenze socievoli in contrasto cogli istinti della violenza, credevano loro dovere cooperare a metterle in azione. Altri erano economisti, che vedevano nella libertà commerciale un potente fattore di pace, e nella pace la vera fonte del benessere po- polare. 333 V'erano filantropi che i dolori dell'umanità, ognora sanguinante per le immani stragi delle guerre, avevano sentito fortemente nel proprio cuore, e con tutte le loro forze volevano ado- perarsi a farle cessare. Quasi tutti erano cristiani, non solo di nome e pel battesimo ricevuto, ma di anima e di pensiero, che credevano venuto il tempo, anche pei governi, di obbedire alla legge di Cristo, che fu da lui insegnata non per gli individui soltanto, ma anche pei popoli. Erano tutti inscritti alle società britanniche per la pace, e nei molti meetings che, seguendo l'esempio dei loro compagni degli Stati Uniti, avevano tenuto negli ultimi anni, avevano ve- duto le loro idee di pace e di arbitrato accolte con grande fervore così dal popolo come dalle classi colte. Temevano del continente, dove i sempre nu- merosi eserciti permanenti erano l'appoggio principale dei governi, e dove le moltitudini erano indifferenti o tenute forzatamente estra- nee alla politica. Ma quando sentirono il titanico sollevamento dei popoli, che nei primi mesi dell'anno fece traballare sulle loro basi tutti i troni de' Eu- ropa, e udirono che alle voci di indipendenza e di libertà si univa dovunque il grido di fra- tellanza e di pace, quei pionieri della pace concepirono la speranza che le loro idee po- tessero trovare più pronta fecondazione là ap- punto dove il terreno pareva più refrattario. Avevano accolto le parole del celebre manifesto di Lamartine, inneggianti alla libertà e alla pace dei popoli, come espressione dei sentimenti di tutto il popolo francese; e nell'appello del Go- verno provvisorio di Lombardia " Alle Nazioni 334 d'Kuropa „, che diceva: " Forse none lontano il giorno in cui tutti i popoli, disdetti i vecchi rancori, si raccoglieranno sotto il vessillo del- l'universale fr;ilellanza „ ch'era slato, rivolto ai (ìoverni, come una voce nel deserto, avevano veduto un incoraggiamento e un plauso al loro apostolato Le guerre d' Italia e d'Ungaria richiamandoli a più dolorosa realtà, avevano reso in essi più vivo il desiderio di estendere la loro azione nel continente d'Europa. Sentirono che non bastava più contraporre ai danni della guerra i vantaggi della pace, ma importava anche ad- ditare ai popoli e ai governi la via da seguire per tutelare i proprii diritti senza ricorrere alle guerre. In questo loro proposito gli amici della pace d' Inghilterra erano stati anche stimolati da un grande americano, Elihu Burritt, che i giornali del tempo esaltano come uno degli uomini di maggior fede nei destini dell'umanità ; aveva lasciato il lucroso suo mestiere di fabbro per dedicarsi allo studio e consacrare tutta la sua vita alla propaganda dei sentimenti di fratel- lanza, che infiammavano l'anima sua. Accolto con entusiasmo dagli amici della pace d' Inghilterra, Elihu Burritt, in sompagnia di queir Henry Richard, che più di tutti con- tribuì, dopo la guerra di secessione, a far ri- solvere pacificamente la vertenza fra l' Inghil terra e gli Slati Uniti per l'Alabama, e che Un che visse dedicò il suo ingegno e tutte le sue forze alla causa della pace e della fratellanza umana, s'erano recati un mese prima a Parigi, per organizzare in quella sempre agitata metro- poli un Congresso similea quello tenutoa Londra nel 1843. Dovettero però rinunciarvi, perchè,men- 335 tre erano ancora aperte le piaghe delle sangui- nose giornale, di giugno, lo stato degli animi in Francia non era in quel momento propizio al buon successo d'un sitfatto convegno. Allora si rivolsero a Bruxelles, dove trova- rono ben disposti il governo, gli alti funzio- nari e r Università. La Girafe era perciò diretta ad Ostenda, dove entrò in porto alla sera. Il mattino del domani i viaggiatori della pace universale partivano con treno speciale per Bruxelles, tiove veni- vano ricevuti alla stazione dal presidente e da tutti 1 membri del Gomitato ordinatore del Congresso. Questo si aperse il giorno medesimo del loro arrivo, 20 settembre, ad un'ora del pomeriggio. PkOPOSITI e SFEKANZE dei CONGKESSISTI. Il Congresso fu tenuto nella maggior sala della Società della Grande Har moine. La sala, nota il resoconto del Congresso stampato l'anno dopo in Bruxelles, (.') è addobbata con giusto. Nel fondo, dietro al tavolo dell'uflìcio, si in- nalza una statua allegorica, che impugna un alveare; ai suoi piedi ci sono gli emblemi delle scienze, delle arti, dell'agricoltura e del com- mercio, in mezzo ad arbusti, a ghirlande di lìori e a bandiere dai colori nazionali del Belgio. Intorno alla sala drappeggiano le bandiere del- l'Inghilterra, di Francia, degli Staii Uniti, di Germania, d'Olanda e d'Italia. (1) L'opuscolo, che s'intitola Congrès des Amis de la Paix nioerselle réuni ù Bruxelles en IS^tS, è ora introvabile. Una copia rarissima mi fu gentilmente favorita dal senatore belga H. Lafontaine, a cui rendo qui i miei ringrazia- menti, e.t.m. 336 Di quella eletta legione dì pensatori, dì (ìlan- tropì, rappresentanti di un'età futura, di uo- mini viventi col pensiero in giorni ancor non /ja//\ dei quali soltanto gli anglo-americani toc- cavano i centosessanta, l'opuscolo che dà il resoconto del Congresso, non nomina che i membri del Comitato, tutti cittadini belgi, alti Funzionari e professori di Università, e gli ora- tori, di cui pubblica i discorsi. Il presidente del Comitato ordinatore era un Consigliere del Consiglio delle Mine, Augusto Vischers, che aveva acquistata una bella ripu- tazione, facendosi poco tempo prima promotore di una campagna contro il duello, servendosi degli stessi argomenti che dovrebbero valere contro le guerre, le quali sono un duello fra nazioni, che danno risultati ben più orribili e micidiali dei duelli fra individui. Il concorso del pubblico assai scarso nelle prime adunanze, divenne sempre più numeroso nelle successive, man mano che i giornali da- vano i resoconti delle interessanti sedute. 11 signor Vischers, che il Congresso a voti unanimi nominò suo Presidente, nel discorso inaugurale ricordò a larghi tratti gli sforzi delle società inglesi ed americane per l'avanza- mento delle loro idee di federazione univer- sale e di pace fra i popoli; ricordò del par- ciò che s'era fatto fin dai tempi di Grecia, coi Consiyli aii/izionici, più tardi iìalVAnsa teuto- nica e dall'Unione Elvetica, poi coi progetti di Enrico IV e dell'abbate di Saint Pierre, per risolvere pacificamente le conlese fra gli Stati. Ma " ogni cosa, soggiunse, arriva alla sua ora ». « Oggi, grazie ai progressi «IcU'iiieiviliineiitu, non ostante la tormenta, il nioniento non ò lontano in cni le nazioni, consapevoli dei mali d'ogni genere clie la 337 guerra porta nei suoi fianchi, non la vedranno che con orrore. L'opinione dominerà il mondo. Quando tutte le nazionalità saranno liberamente costituite, lo spirito di conquista e di dominazione diverrà im- possibile. » L'idea espressa dalle ultime parole è giusta, ma, per non dare buon giuoco ai militaristi, che dall'esistenza di nazionalità asservite si ser- vono per legittimare qualsiasi guerra, bisogna proclamare e far bene penetrare nella co- scienza pubblica dei paesi liberi, che alle grandi nazioni già costituite spetta il dovere di aiutare colla loro autorità morale, e, ove occorra, colle loro forze unite, come avvenne per l'autonomia di Creta, le popolazioni che soffrono e si di- battono sotto la tirannide straniera, a liberarsi dal giogo che le opprime. Era probabilmente questo il pensiero di Vischers. il quale dopo aver detto che : « . . . . gli antichi pregiudizi, le antiche barriere, sono scomparse o scompariranno in un avvenire non lontano », chiudeva il suo discorso, citando la famosa strofa di Beranger cantata nella festa data a Liancourt, in occasione dell'evacuazione del territorio francese dei soldati della Santa Al- leanza : J'ai vu la Paix descendre sur la terre Semant de l'or, des lieiues et des épis, L'air etait calme, et du Dieu de la guerre Elle étouffait les foudres assoupis. Ah! disait-elle, égaux par la vaillànce, Franfais, Anglais, Belge, Eusse ou Germain, Peuples, formez une saiute alliance. Et donnez-vouz la main ». 338 « Il poeta (disse terininando il presidente Vischers) uoii comprende in questa enumerazione i nostri amici americani; ma noi diamo loro la mano attraverso l'immensità dell'Oceano ». Non occorre aggiungere che questo discorso, come quelli che verremo citando più innanzi, fu dall' uditorio salutato da grandi applausi. Poco dopo il presidente, parlò il deputato dell'Assemblea Nazionale di Francia Francesco Bouvet. Questi avrebbe voluto che nel pream- bolo posto in testa alla Costituzione della Re- pubblica francese, che si stava in quei giorni discutendo, ci fosse il voto augurale di vedere un giorno stabilita una giurisdizione interna- zionale per sostituire la guerra, giudicare le vertenze che nascerebbero fra gli Stati, garan- tire i trattati e regolare i grandi movimenti dello spirito umano nel senso della moralità e del benessere delle società. Questa sua idea fu respinta dai suoi colleghi come utopistica; ma poiché in quel medesimo preambolo era detto che la giovine Repubblica intendeva con- servare V iniziativa della civiltà nel mondo, il deputato Bouvet serbava ancora la speranza che l'Assemblea francese, prima del voto definitivo di tutta la Costituzione, avrebbe accolto la sua proposta. « Per essere un organo avanzato della civiltà (egli disse nel suo discorso al Congresso^ non basta vo- lerlo; bisogna altresì essere in pcssesso di una di quelle idee madri, che partecipano alla cosmogonia generale, bisogna avere una dottrina o nna forinola che risponda non solamente all' interesse dei citta- dini nella patria, ma anche all'interesse delle nazioni nel inondo; bisogna in nna parola mostrare che si ha per iscopo un grande interesse di umanità. » Nobili parole e idea giustissima, che dovreb- 339 be meditare e far propria la nuova Repub- blica francese come qualsiasi nazione che abbia la bella ambizione di essere iniziatrice e guida agli altri popoli nella via delle civiltà. Ottimista, come tutti i filantropi, il deputato Bouvet era però abbastanza positivista per ri- porre negli interessi materiali dei popoli la sua fede nel trionfo della pace. < Come uou riconoscere (diceva) che le transazioni commerciali sono talmente generalizzate e impegnate da un capo all'altro dell'universo che ogni commo- zione impressa all'ordine materiale l'agghiaccia di spavento e lo minaccia di rovina... Come è possibile figurarsi che nazioni sedicenti civili consumino un quarto o un terzo del loro bilancio annuale a mante- nere eserciti, il cui minimo inconveniente consiste a privare l'agricoltura, l'industria, il commercio, la po- polazione, degli uomini più sani e più vigorosi ? » Dopo trascorso più di mezzo secolo, si può ripetere oggi la stessa domanda ai governi, i quali se da un lato han diminuito la durata del servizio militare in tempo di pace, hanno d'altra parte esteso a un numero smisurato di cittadini l'obbligo di quel servizio. Continuiamo la citazione : « Le nazioni rimangono, di fronte le une alle altre, nello stato di barbarie, senza legge positiva, senza giurisdizione comune, senza legame di associazione, abbandonate alle eventualità della discordia e della guerra. Ma non fu così delle famiglie, delle tribù, delle Provincie, finche non ebbero accettato la giu- risdizione che loro diede la pace costituendole in na- zione ? « Formare oggi, elevare al disopra delle nazioni, una legge di associazione, una giurisdizione rappre- sentativa, che sicno per esse ciò che sono le leggi e i tribunali per le famiglie, è il mezzo da adottare. 340 « Sì, o signori, bisogna che nna antorità superiore, un'unica giurisdizione si elevi sulle nazioni del mondo. L'unità ò una legge assoluta della natura della so- cietà, come lo è di ogni armonia. « .... I Cesari, Tamerlano, Carlomagno, Maometto, Gregorio, Napoleone furono fragili stromenti della tendenza irresistibile dei popoli verso quest'attra- zione unitaria, in cui sembra cLe l'umanità possa trovare il suo riposo. L'unità si realizzerebbe ancora una volta nell' assolutismo d' un conquistatore, se prima non si effettuasse in un'imponente rappresen- tanza sociale, capace di coordinare gli elementi di- sordinati della sociabilità nel diritto comune dei popoli ». Per dimostrare l' importanza che avrebbe questo Congresso universale dei popoli, l'oratore fa constatare che, mentre i bisogni dei popoli sono corrispondenti, ciascun popolo ha biso- gno di ricorrere ad altri per avere ciò che gli manca, dandogli in cambio ciò che a lui la na- tura dà in sovrabbondanza. Aggiungasi die nessun commercio può pro- sperare all'interno, se non può estendersi anche al di fuori. Al commercio, egli soggiungeva, non altrimenti che allo spirito umano, occorre l'u- niversalità. Orbene, continuava il deputato Bouvet, sol- tanto un Congresso che tratterà e fisserà i rap- porti dei diversi Stati dal punto di vista del- l'universalità, ossia dell'interesse generale della civiltà, potrà dare al commercio la facilità, la libertà, la sicurezza, di cui ha bisogno. Questa suprema magistratura investila del- l'autorità di trattare della politica del mondo intero da un punto di vista generale, risiedeva un tempo nella Chiesa, che l'esercitava me- diante i Concini ecumenici. 341 « La forma rappresentativa, (son parole di Bouvet) tradizione vivente della Chiesa primitiva, vi mante- neva un gorme sociale, che non avrebbe mancato di svilupparsi al contatto delle idee largamente piìi tardi diffuse dai lumi della filosofia e dallo stro- meuto della stampa. » Il Bouvet deplorava che questi Concllii ecu- menici della Chiesa cristiana, invece di tra- sformarsi e perfezionarsi sotto l'ispirazione del movimento sociale, si da divenire la suprema magistratura " che manca al mondo come for- mula del diritto comune dei popoli r, non siano più che una memoria d'un lontano passato. « I Concilii (proseguiva Bouvet) non si apriranno più nella vecchia Chiesa per metterla sulla via del progresso, al quale essa ha ostinatamente resistito, quando dipendeva da essa di ammetterlo. Invano essa respinge, maledicendolo, il fiotto che la colpi- sce ; il fiotto obbedisce al soffio della legge univer- sale. Ma il suo spirito immortale, lo spirito cristiano batterà ancora delle sue ali di fuoco il mondo so- ciale e verserà su di lui le sue sante inspirazioni ». Parrebbe da queste parole che il deputato Bouvet fosse un uomo abituato a spaziare colla fantasia nelle superne sfere dell'ideale, dove la politica si confonde colla religione; ma, co- me già s' è detto, questo idealista aveva una mente sostanzialmente positivista, che, quando nessuno nel mondo politico ne parlava, aveva compreso la necessità e la possibilità del tra- foro delle grandi montagne, del taglio degli istmi. « Esso (il Congresso delle nazioni) potrebbe stabi- lire una ferrovia fra il Mediterraneo e V Eufrate, o attraverso l'Egitto, per arrivare alle Indie. L'istmo di Corinto, l'istmo di Panama potrebbero non essere più un ostacolo alla navigazione, il primo nel Medi- 342 terraneo, il secondo fra l 'Oceano Atlantico e il grande Oceano. Tali intraprese, ed altre forse maggiori, die sombrano oggi impraticabili, diverrebbero di facile esecnzione.... » Questi utopisti della pace e della federazione universale portavano adunque uno sguardo si- curo anche nel mondo materiale, se, quasi pro- feti, vedevano fin d'allora tracciata la ferrovia lungo tutta l'Africa, a cui solamente da qualche anno l'Inghilterra ha volto il pensiero, e se addi- tavano come opere da compirsi a vantaggio del commercio universale il taglio dell'istmo tra il Mediterraneo e il mar Rosso, e quello, del Pa- nama, molti anni prima che Lesseps facesse i progetti dell'uno e dell'altro. Un Congresso, quale lo immaginava Bouvet, avrebbe dovuto rivedere i trattati, e riformare, neir interesse generale, le delimitazioni degli Stati. Le vittorie di Radetzki avevano rimesso l'Austria in possesso della Lombardia e del Veneto, e per una definitiva pace la Francia e ringliilterra avevano offerto la loro media- zione, che poi, in seguito alla elezione di Luigi Bonaparte alla presidenza della Repubblica francese, si annullò da sé medesima. Un Congresso delle nazioni non sarebbe stato soggetto a simili vicissitudini, e fatta la suppo- sizione che un simile Congresso avesse dovuto regolare l'affare tra l'Austria e l'Italia, Bouvet dichiarava: « Il Congresso non sarebbe imba- razzato, perchè potrebbe facilmente indenniz- zare l'Austria dell'Italia, che " a mio avviso « soggiungeva, " non potrebbe conservare «. Non fu anche questa una profezia? e non sarebbe stato più utile e più dignitoso per l'Austria, e più conforme allo spirito di ci- 343 viltà, ch'essa avesse rinunciato all'Italia in se- guito all'invito d'un Congresso di tutte le na- zioni, nel quale l'Austria stessa sarebbe stata rappresentata, anziché, dopo essere stata bat- tuta in guerra, davanti alle imposizioni del vincitore ? « La stessa cosa avverrebbe (diceva Boiivet) delle tiansizioui politiche dei governi fra loro. Dovunque e iu ogni cosa il Congresso universale eserciterebbe uua salutare influenza. Portando nel suo seno la pace tra le nazioni, porterebbe nel tempo medesimo la pace interna tra gli elementi politici ; renderebbe le rivoluzioni impossibili, regolando e assicurando il cammino incessante del progresso. » Egli concludeva che un Istituto investito di una giurisdizione internazionale, sarebbe stato infallantemente il prodotto d'un bisogno gene- rale finp allora mal compreso. « Tocca a voi (furono le ultime sue parole rivolte ai Congressisti) di farvi nel mondo apostoli di que- sta imponente necessità, così conforme ai disegni della Provvidenza. Coraggio, adunque, generosi amici della pace ! propagate l'idea di sostituire alla guerra il tribunale delle nazioni. Eìvolgetevi ai popoli ed ai re, e non dubitate un istante dell'avvenire del vostro apostolato. » L'effetto prodotto da questo discorso sull'u- ditorio deve essere stato grandissimo, poiché lo scozzese Ewart, deputato alla Camera dei Comuni, spinto dalla commozione che ne aveva avuto, sentì il bisogno di rispondergli per as- sicurare il deputato francese e il Congresso dei sentimenti di pace di tutta la nazione in- glese. « Io sono membro (disse) della Camera dei Comuni da oltre vent'anni, e j)osso affermare che l'immensa maggioranza del parlamento britannico è favorevole 344 alla ]iafo. Id non avova 1' inteuziono tli prendere la parola in quest'occasione, ma dopo il discorso del sig. Bouvet, l'eloiiueuto rappresentante del Parla- mento francese, ho creduto mio dovere parlare in nome dei miei colleghi del Parlamento britannico. Io dicliiaro qui che la nazione inglese desidera sin- ceramente il progresso e la prosperità della Francia (vivi applausi). Per conto mio, ho sempre riguardata la prosi)erità della Francia come intimamente legata a quella dell'Inghilterra, contro tutto le vecchie as- surdità che facevano consistere la felicità d'una na- zione nell'abbassamento della sua rivale ! E' interesse, direi quasi un dovere, di tutti i popoli di desiderare la prosperifcti degli altri popoli, loro fratelli. Questi sentimenti eh' io esprimo in nome dell' Inghilterra la Francia, non ne dubito, li prova del pari. « Questo è il primo giorno d'un gran trionfo. La nostra missione sarà vittoriosa, perchè la felicità dell'uomo ne è lo scopo, e la legge di Dio ne fa un dovere. » ^ Termioato questo discorso fra gli applausi, Bouvet si alzò, e fra le acclamazioni dell'as- semblea, strinse fortemente la mano ad Ewart. Si sarebbero dette la Francia e l' Inghilterra, che, riputiiando vecchie e stupide gelosie, si davano l'una e l'altra, nelle persone dei due, loro rappresentanti, un pegno di fraterna ami- cizia. Parecchi oratori avevano più o meno deviato dal tema da discutersi, ch'era la iniquità e la inutilità della guerra •,]fu un altro inglese, già membro del Parlamento, J. S. Buckingham, che vi richiamò il Congresso: « Se il progresso fegli disse) è la legge dell'uma- nità, la guerra è certamente il suo più crudele ne- mico. La guerra diminuisce invece di accrescere, di- strugge invece di edificare, invece di far progredire l'uomo, cambia la civiltà in barbarie. Io ho visitato 345 le rovÌBe di Xinive, di Babilonia, di Palmira, di Tebe, di Memfi. Queste città, una volta sì potenti e sì rinomate, superiori in estensione, in popolazione e in ricchezza alle città d'oggi piìi potenti, ora non sono più che un mucchio di avanzi che calpestano pochi pastori isolati. Esse sono sepolte nel silenzio della notte. Ecco dove le ridusse la guerra ! Se mi avvicino alle contrade da noi abitate, dove trovare un esempio più splendido della verità, che noi ve- niamo qui a difendere, della sorte di Roma, la regina del mondo ? « .... Roma, dopo avere domato il mondo, fu a sua volta inghiottita dalla conquista ; esempio imponente della divina parola : Chi colpirà di spada morrà di spada. » Dopo aver parlato delle rovine dei grandi imperi vedute nei suoi viaggi, Buckingham ac- cennò ai combattimenti a cui aveva assistilo : « A nove anni entrai nella marina ; a undici anni fui fatto prigioniero, e provai i mali della cattività; ricuperata la libertà, ho assistito a una dozzina di combattimenti. Fui in grado di conoscere davvicino gli orrori della guerra, di cui tanta gente non co- nosce che il lato poetico : le riviste, le armi, le feste, le decorazioni scintillanti al sole. Possa il Belgio, che fa l'arena su cui si sono decise tante lotte san- guinose, essere la prima nazione a salutare l'opera della pace universale. » Pur troppo il sole della pace universale non splende neppur oggi sul mondo, e benché molto cammino sia stato fatto dopo il Congresso di Bruxelles verso l'altissima meta, i militanti d'oggi per la pace internazionale non si lu- singano di vederla presto stabilita su solide basi in tutto il mondo civile. 346 Perchk la guekha sussiste. Una singolarità del Congresso di Bruxelles da dover notare, è l'avervi partecipalo un difen- sore della guerra, entratovi per proprio ca- priccio, a far la parte del diavolo, o mandatovi dal proprio governo, ch'era quasi sempre preda dei generali. Era di Madrid, e si chiamava Ramon de la Sagra. Tutte le deliberazioni del Con- gresso, che pubblichiamo più innanzi, furono votate a unanimità, meno un voto, quello dello spagnuolo. Egli parlò dopo che parecchi oratori avevano sostenuto che essendo la guerra una enorme e scandalosa violazione della legge di Cristo, è dovere di chi si crede veramente cristiano di farla cessare ad ogni costo. Più eloquente di tutti parlò in questo senso Enrico Richard» della società dei quaqueri come la maggior parte dei suoi colleghi. Ricordate le parole che secondo la leggenda, annunciarono la nascita del redentore, disse che la vita intera del fon- datore del cristianesimo fu la messa in pratica dei principi dell'evangelio. . «È tempo (egli soggiunse) die la religione riprenda il suo impero anche su coloro, elio la onorano col labbro, ma non come essa intende di essere onorata» vale a dii'e conformando i propri! atti alla sua divina parola. La fedo che opera è sola sincera. Che importa che ci consideriamo come cristiani, se non obbediamo ai precetti d'amore e di pace, che risnonarono dal Calvario per la salute e la felicità degli uomini? » È la medesima idea che da una ventina d'anni con calore di vero apostolo e con logica strin- gentissima propugna in tutti i suoi libri e nelle sue lettere Leone Tolstoi, il quale ha avuto nei quaqueri d'Inghilterra e d'America i suoi pre- cursori, e forse i suoi inspiratori. 347 Questa fede nella efficacia dell'idea cristiana il sig. Ramon de la Sayra, sebbene appartenente al paese più cattolico del mondo, non l'aveva. « L'umanità (egli disse) ha vissuto lino ad oggi sotto l'impero della forza, e l'umanità non può essere condannata dall'oiiinione di alcuni individui. Perchè questa dominazione della forza è stata necessaria ? Perchè essa sola dà le garanzie all'ordine sociale, perchè occorre la forza per farsi obbedire ». Le conclusioni di questo apologista della forza furono degne delle premesse. L'arbitrato è ira- possibile, perchè sarebbe senza sanzione, a meno che si appoggiasse sulla forza brutale ; l'aboli- zione degli eserciti sarebbe a tutto danno del- l'ordine sociale; un Congresso europeo o mon- diale per regolare, conformemente a giustizia, i rapporti delle nazioni, sarebbe « impossibile, assurdo, e se mai, per una coincidenza di cir- costanze, un Congresso europeo o umanitario potesse aver luogo, sarebbe la sorgente della più terribile delle anarchie ». Come è facile immaginare , i congressisti convinti della verità e della giustizia dell'idea che li animava, non ebbero difficoltà a rispon- dere alle sentenze superbamente pessimiste del- l'oratore spagnuolo. Citarono i molti arbitrati già avvenuti, spe- cialmente fra gli Stati Uniti e l'Ingnilterra, alle cui sentenze lo Stato che ne usci condannato si era sempre volonterosamente sottoposto; citarono gli esempi delle rivoluzioni trionfa- trici sugli eserciti, quando i governi non eb- bero più l'appoggio dell'opinione pubblica ; ci- tarono i Congressi di Munster, di Dtrech, di Vienna, che possono ben considerarsi come preludi dei Congressi universali. La risposta sarebbe ben più trionfante oggi, 348 ma delle conquiste fatte da un quarto di se- colo in qua nelle vie della pace e dell' unione dei popoli diremo a suo tempo. Qui importa notare che nessuna necessità so- ciale mantiene la guerra fra le nazioni civili, bensì l'interesse di alcuni gruppi d' uomini, e più di tutto la falsa credenza, ancora radicata in molti cervelli ritardatari, che la guerra esista per legge di natura, e che nessun sforzo umano valga a sopprimerla. Come sopprimerla. La maggior parte degli amici della pace là congregati avevano piena fede che la voce della ragione e della morale dovesse bastare a rige- nerare il mondo, atrofizzando gli istinti d'odio e di violenza ereditati dalle età barbare e sel- vaggie. Il barone di Reiffenberg, conservatore della Biblioteca reale di Bruxelles, allarmato nel ve- dere che gli istinti di lotta brutale sono anche stimolo a guerre intestine, assai più feroci e più disastrose delle guerre fra estranei, disse che non vedeva altro rimedio che nell'educa- zione basata sul cristianesimo, il quale di fronte al diritto impone la legge universale del do- vere. Molti però, come i lettori avranno già rile- vato, pur vedendo nell' educazione un fattore non trascurabile per la causa della pace, ma riconoscendone troppo lenti gli effetti, volevano che non fossero trascurati altri mezzi di più immediata applicazione. Fra costoro dobbiamo ricordare Riccardo Cobden, il trionfatore del- l'abolizione dei dazi sui grani, il quale, in una lettera inviata al Congresso, sosteneva il mi- 349 glior mezzo di propaganda essere quello di in- sistere per il disarmo. « Per conseguire questo scopo (diceva) non avete che da pubblicare, nelle diverse lingue del continente, alcuni fatti semplicissimi ». E questi fatti egli riassumeva nelle cifre delle enormi spese che costavano all'Europa "gli armamenti permanenti ". La somma da lui cal- colata era di cinque miliardi all'anno. — Che di- rebbe il grand' uomo oggi che questa somma é più che raddoppiata! Poi acutamente aggiungeva: « Mi si dirà che io fo aiipello a motivi poco nobili, considerando così la questione sotto un punto di vi- sta pecuniario. E' vero ; ma se il Nuovo Testamento non ha potuto inspirare alle nazioni cristiane la fede nei principi della pace, a me sarà lecito di dimostrare quanto fu costoso l'appoggio che si volle cercare nella guerra per difendersi ». Alla discussione sul disarmo fu dedicata una lunga seduta, nella quale parlarono: Chame- rovzow. segretario della Società per la prote- zione degli indigeni, che osservò essere la pace armata eccitatrice di guerra, perchè fornisce tutto il materiale per farla; Alvin , l'abbate francese Louis, il prof. all'Università di Bru- xelles, avv. Russell, e più eloquente di tutti Henry Vincent, di Londra. « K l'opinione pubblica (egli disse) impregnata delle sante verità del cristianesimo, armata delle conquiste della scienza, ed emanante dal glorioso perfeziona- mento dell'intelligenza umana, basata siJl'eterna giu- stizia, che ucciderà la guerra — « Il disarmo ! Noi faremo risuonare questa parola alle orecchie delle popolazioni sofìerenti. degli arti- giani, degli industriali, dei commercianti che soc- 350 combouo sotto il pi'so delle imposte, assorbite dal inantenimeuto d'una moltitudine imi)roduttiva ». E ben prevedendo che, non ostante i voti di tutti i Congressi, difficilmente il mondo assi- sterà a un disarmo simultaneo e generale, ri- pose le sue speranze in quella nazione che ne avrebbe preso l'iniziativa: «il suo nome sarà tramandato alla posterità come quello del primo popolo che abbia compreso la missione dell'u- manità ^>. Come italiani non possiamo passare sotto si- lenzio il discorso del signor Bertinatti di To- rino, il quale con soda dottrina accompagnata da molto senso pratico, trattò del Congresso delle na- zioni e del Codice internazionale, che ne do- vrebbe uscire. Che un simile Congresso sia tutt' altro che un sogno, Io dimostrò ricordando alcuni di quelli già avvenuti per regolare le cose d' Eu- ropa. È vero che in quei Congressi gli interessi dei popoli furono quasi sempre sacrificati | perciò augurava che i delegati al desiderato Congresso delle nazioni fossero cultori di filo- sofia e giureconsulti, e dovessero essere rap- presentanti della maggioranza collettiva del po- polo, e indicava come modello i giudici del- l'Alta Corte federale degli Stati Uniti. Circa il Codice del nuovo diritto internazio- nale, ne indicava le prime linee nei progetti di Emanuele Kant e di Geremia Bentham, dei quali dava una succinta analisi. Vedeva infine il miglior sistema d'equilibrio nel diritto d'ogni popolo a governarsi in virtù della sua propria autonomia, tutti uniti fra loro coi legami d'una Confederazione « fondata sulla jiinstizia e sulla fratellanza». 351 E aggiungeva : « La libertà commerciale, che è destinata a fare il giro del uiontlo, non potrebbe agire tntta sola, senza addnrre al suo seguito la confederazione politica di tutti i popoli. L'ana e l'altra si tengono come due sorelle, e derouo necessariamente o vivere d'una me- desima vita, o perire se non il medesimo giorno, al- meno a poca distanza l'una dall'altra ». Pur troppo fu profeta, poiché vediamo anche oggi nel protezionismo doganale uno dei mag- giori ostacoli alla libera unione dei popoli. L'oratore torinese terminò il suo disorso di- cendo che il giorno in cui Lamartine rivolse all'Europa la celebre circolare, fu posta la prima pietra, « da cui sorgerà tosto o tardi il Congresso euroiieo, che risponderà, se non a tutte, almeno ad una gran parte delle nostre speranze, e che procurerà ai nostri sforzi e ai nostri desideri la loro realizzazione ». Nell'attesa del Congresso delle nazioni, di cui non si vedeva in alcun paese l'araldo destinato a darne l'annuncio ufficiale, i congressisti di Bruxelles si attaccarono all'arbitrato, che aveva fatto buona prova più volte, pur nello stato ex lege in cui le nazioni si trovano di fronte le une alle altre. L'arbitrato, disse uno degli oratori, stringe- rebbe i legami di amicizia fra i popoli, da- rebbe a poco a poco alle relazioni internazio- nali norme giuridiche autorevoli e precise, sarebbe infin-e il miglior preliminare a un Con- gresso delle nazioni. Amantissimi della pace, non erano però arri- vati quei congressisti, se si tien conto dei di- scorsi che furono là pronunciati, fino a far getto del sentimento di patria e dei diritti di nazionalità. 352 Già abbiamo veduto come il Vischers nel di- scorso di apertura del Congresso giungesse perfino a rimandare al compimento di tutte le nazionalità, la fine dello spirito di conquista e di dominazione, da cui le guerre derivano. La migliore difesa del principio di naziona- lità fu fatta nel Congresso dal sig. Alvin, di- rettore dell'istruzione pubblica del Belgio. « Le nazioni (egli disse) nascono come i frutti dalla terra; esse sono radicate nel snolo, e risultano da tutte le circostanze locali. « E' impossibile ammettere che un sistema clie d.a- rebbe a tutti gli Stati una regola per terminare le loro vertenze, e un tribunale supremo per applicare onesta regola, è impossibile ammettere che questo sistema distruggerebbe le nazionalità. Noi abbiamo esempì di nazionalità conservate nei più tristi mo- menti, sotto l'oppressione ». Non nominò, ma il pensiero di tutti poteva correre in quel momento all'Italia, all'Ungaria, alla Polonia. « E voi vorreste che questo sentimento venisse a mancare quando la pace regnasse? Forse la pace mi potrà impedire di amare la mia patria, la mia famiglia? All'opposto, la pace dovrà affezionarmi sempre più al mio suolo ». Gli applausi che salutarono questo discorso provano che l'oratore aveva interpretato il sen- timento di tutta l'adunanza. Terminati i lavori del Congresso, 1 ufficio di presidenza fu incaricato della nomina di un Comitato che dovesse occuparsi della convo- cazione, in luogo ed epoca da determinarsi, di un nuovo Congresso. E quello che un anno dopo si riunì a Parigi sotto la presidenza di \ictor Hugo, e a cui intervennero parecchi dei con- gressisti di Bruxelles. 353 Nel momento di separarsi, quei precursori di un mondo migliore sentirono — legittimo com- piacimento — di avere, nelle idee svolte nel Congresso e nelle deliberazioni votate, tracciata la via ai governi civili e agli uomini di buona volontà d'ogni parte del mondo, che condurrà alla cessazione degli umani macelli delle guerre e all'estinzione dello spirito di violenza. Dissero a sé stessi che un'era nuova di ci- viltà vera spuntava nel mondo, e si sentivano orgogliosi di esserne stati gli annunciatori. Il pensiero di tutti veniva riassunto dal pre- sidente Vischers nelle parole di commiato ai congressisti, colle quali chiuse il Congresso : " La presenza solenne degli apostoli della pace nella nostra città è un avvenimento al quale le nostre popolazioni si sono vivamente interes- sate. Io ne prendo atto, e dico che la prima pietra del tempio della Pace è stata posta in Bru- xelles da Voi I ». Avvenimento grandioso, e umanissimo augu- rio, che non potevano mancare nell'anno delle grandi lotte per l'indipendenza e la libertà dei popoli. Ordini del Giorno votati. « 1.° L'appello alle armi per risolvere le vertenze internazionali è un uso che condannano a un tempo la religione, la ragione, la giustizia, l'umanità e l'in- teresse dei popoli. — In conseguenza, è un. dovere per il mondo civile, e un mezzo di salute adottare le misure proprie a recare l'abolizione completa della guerra. « 2.0 E' della più alta importanza insistere presso i governi acciocché mediante un arbitrato, i cui prin- cipi sarebbero posti nei trattati, sieno definite, per via .amichevole e secondo le regole della giustizia, le 2S 35 i vertenze che potrebbero sorgere tra le nazioni. Ar- l>itri speciali, o una Corte suprema internazionalo pronunciierebbero in ultima istanza. < o." E' desiderabile, che in tempo prossimo un Congresso delle nazioni, formato di rappresentanti di ciascuna di esse, si riunisca per redigere un Co- dice rogohintc i rapporti internazionali. Lo stabili- mento di ([uesto Congresso e l'adozione di un Codice sanzionato col consenso di tutte le nazioni, sarebbero mezzi sicuri per arrivare alla pace universale. « 4." V'è motivo di chiamare rispettosamente l'at- tenzione dei governi sulla necessità di entrare, con lina misura generale e simultanea, in un sistema di disarmo, il quale riducendo le spese degli Stati, taccia nel medesimo tempo scomparire una causa permanente di irritazione e d'inquietudine. La fiducia reciproca e lo scambio di buoni uftìcii sono altrettanto favore- voli a ciascun paese in particolare, quanto al man- tenimento della pace e allo sviluppo della prosperità delle nazioni ». Queste deliberazioni furono da una deputa- zione del Congresso, di cui facevano parte il Vischers, il deputato inglese Ewart, E. Richard, il francese Bouvet ed altri, presentate il 30 ot- tobre 1848 al primo ministro d'Inghilterra, Lord .John Russe], il quale espresse la sua maggiore compiacenza pei sentimenti che avevano ani- mato il Congresso; fece voto che le adunanze di questo genere si ripetessero per diiFondere fra i popoli idee di saggezza e di moderazione. Ma circa l'uzione del governo promise soltanto che quando, in una divergenza con altra na- zione, questa proponesse alla Gran Brettagna di riferirne ad un arbitrato, il governo in- glese prenderebbe la proposta in seria consi- derazione. Sempre gli stessi questi uomini di governo! Un inipcgno positivo — per una causa clie in- 355 teressa in sommo grado la civiltà e l'umanilà — non vogliono mai prenderlo. Quante conquiste in breve tempo, di cui po- trebbero fruire tutti i popoli, e come più mae- stoso sarebbe il cammino del progresso, se i filantropi avessero un po' dell'autorità e della forza che hanno gli uomini di Stato, o se gli uomini di Stato avessero un po' più di fede nei principi di morale e di giustizia! FINI-: DEL PRIMO VOLIMK. INDICK Prefazione Pttg- m Epoca Napoleonica » 1 Inizi di propaganda contro la guerra. . » 17 Il Congresso di Vienna e la S.^ Alleanza » 27 Le prime guerre per la libertà e per l'in- dipendenza » 35 La rivoluzione francese del 1830 ...» 45 L'insurrezione polacca » 56 Moti italiani • . . . » 61 Insurrezioni contro Luigi Filippo ...» 68 Guerra intestina in Spagna » 80 La questione d'Oriente dopo il 1830 . . ?> 89 La Russia e l'Inghilterra in Asia ...» 94 I Francesi in Algeria » 97 Le Società per la Pace all'opera . . . » 102 la Italia — Nel nome di Pio IX si pre- para la rivoluzione » 111 II 1848 » 124 L'insurrezione di Parigi » 132 i Governo provvisorio della Repubblica Francese » 158 Germania e Austria ^> 172 ."{58 Le cinque giornate di Milano . . . l'ag. l^T La rivoluzione di Venezia » 220 La guerra di Lombardia - 1848 ...» 237 La lotta sociale in Francia e il mancato soccorso della Repubblica all'Italia . » 289 Rivoluzione e reazione in Austria e Ger- mania .... » 309 Congresso per la pace universale a Bru- xelles . » 332 <=^yrv^ ,^ MAR 9 1972 D Moneta, Ernesto Teodoro 35S Le guerre M6 v.l PLEASE DO NOT REMOVE CARDS OR SLIPS FROM THIS POCKET UNIVERSITY OF TORONTO LIBRARY